Perché un santo nella savana? Un’opzione tenacemente voluta e difesa. Capire perché la beatificazione del missionario comboniano, il comasco padre dottor Giuseppe Ambrosoli, si tenga il 20 novembre in Uganda, in quel nord del paese, in quell’antica missione di Kalongo, oggi parrocchia sperduta nella savana africana ai confini con il Karamoja, significa capire chi è stato e perché questo Ambrosoli continui a essere per tutti “Padre Giuseppe”.
Moriva il 27 marzo 1987, a soli 64 anni, lontano dal suo ospedale di Kalongo, profugo a Lira tra i lango, dopo aver garantito la continuità scolastica alle ragazze studenti della “sua” scuola di ostetricia ‒ St. Mary’s Midwifery School.
Dopo 7 anni, il 10 aprile 1994, erano andati a riprenderselo per riportalo a Kalongo. Le cronache raccontano di una cerimonia dall’alta intensità emozionale: «L’ambulanza che trasportava le spoglie di padre Ambrosoli procedeva con i fari e i lampeggianti accesi, seguita dal corteo di macchine e dal camion. Alla rotonda di Kalongo tutti erano ad attenderlo: gli alunni delle scuole in divisa, le infermiere, i catecumeni e la gente del villaggio. Non ci sono parole per esprimere l’emozione che abbiamo provato nel vedere la bara di legno chiaro che veniva estratta dall’ambulanza. Una donna, staccandosi dal gruppo, si faceva avanti per rendergli omaggio danzando la tradizionale danza funebre. Finalmente Giuseppe era tornato tra noi! La salma è stata poi trasportata a spalle dal paese fino alla Chiesa, accompagnata da un corteo lunghissimo e variopinto di divise e di colori, e dall’ondeggiare di rami di alweto (il ramo del benvenuto), cullata dal dolce ritmo della musica sulle bellissime parole di un canto cadenzato: “Giuseppe, dono di Dio, hai dato la tua vita per noi”».
Al cimitero la cassa è stata portata anche da quattro amici di Ronago (Como), il paese di padre Giuseppe, venuti a rappresentare la famiglia e la comunità e, a un certo punto, anche da preti europei e africani. Un pugno di terra ronaghese è scesa con lui nella tomba e una manciata di terra africana è stata portata a Ronago.
Un segno carico di futuro. Mani che si stringono e si confondono al di qua e al di là del Mediterraneo: Africa-Europa/Europa-Africa. Poi, l’ultimo atto d’amore: il gesto di una donna a spargere petali di rosa su quella terra meno pesante per tutti. Perché padre Giuseppe era tornato tra i suoi.
Metterci la faccia
Come interpretare tale accoglienza e cogliere il significato di quel cerimoniale pensato solo per lui? Non trovo migliori parole di quelle che papa Francesco riserva nella Evangelii gaudium ‒ l’esortazione apostolica che è la carta programmatica del suo pontificato ‒ a coloro che educano al senso del “bene comune” e sono creatori di pace sociale.
Una sintesi che abbraccia il tempo e le persone nella loro concretezza. In pratica, una presa di distanza da ogni astrazione disumanizzante. Ed ecco la denuncia di questa astrazione disumanizzante: «i purismi angelicati, il totalitarismo del relativo, i nominalismi dichiarazionisti, i progetti più formali che reali, i fondamentalismi antistorici, gli eticismi senza bontà, gli intellettualismi senza saggezza» (Eg 231).
Da queste astrazioni, che non tengono debitamente conto dell’uomo in situazione, è possibile liberarsi grazie all’assunzione di quelle quattro dimensioni che l’esortazione addita per ogni opera che voglia avere un reale impatto trasformatore sulla realtà, come pure della stessa attività evangelizzatrice: «Il “tempo” è superiore allo “spazio”; “l’unità” prevale sul “conflitto”; la “realtà” è più importante “dell’idea” e il “tutto” è superiore alla “parte” (cfr Eg 222-237).
La “prevalenza del tempo”, significa dotarsi di un orizzonte più ampio, far prevalere l’utopia che guarda al futuro, apre processi e quindi lavora non con l’immediato ma con la pazienza e la sapienza dei tempi lunghi. L’“unità che prevale sul conflitto”, significa che non si nega il conflitto ma lo si redime attraverso una visione unitaria e allo stesso tempo composita della realtà, insomma trova la risoluzione del conflitto collocandosi su un piano superiore.
La “realtà più importante dell’idea”, significa che essa ha la capacità di passare dalla realtà meramente pensata alla realtà di fatto che è processo di elaborazione senza l’alibi di idealismi.
Il “tutto superiore alla parte”, significa essere capaci di articolare globale e locale; il lasciarsi interpellare da ciò che è diverso; il lavorare con il più piccolo in una prospettiva più ampia e il coordinare la visione finale dell’opera con gli immancabili condizionalismi che, da impedimento, divengono invece ulteriori stimoli per migliorare ciò che è stato ideato.
Entrare in questa quadruplice dinamica significa avere il senso del “bene comune” ed essere creatori di pace sociale: quello che appunto anche l’evangelizzazione vuole raggiungere nella sua espressione più autentica e più efficace. In parole più crude, voler metterci sempre la faccia pagando di persona!
Preghiera incessante
Scorrendo quanto detto sopra, tutte queste dimensioni le troviamo nel modo di ragionare e nella prassi missionaria di padre Giuseppe: capacità di ragionare con “il tempo”, di far prevalere “l’unità”, di fare sempre i conti “con la realtà” e di avere prioritariamente davanti agli occhi l’armonia e la complessità della totalità.
In una situazione estremamente articolata, come quella di Kalongo, che esigeva capacità organizzativa, celerità di interventi e competenze in vari campi, dall’amministrativo al sanitario, era patente che per il padre dottor Ambrosoli il primato era sempre di Dio, finalizzato al poter essere sempre al servizio delle persone. L’ammalato era al centro di tutto.
Allora, al di là dell’ammirazione (ed era tanta per le capacità chirurgiche di padre Giuseppe), impressionava quella preghiera incessante fatta a ore antelucane o sotto le stelle, con grande semplicità e naturalezza; impressionava il gesto gentile e accogliente, quel suo umile e dimesso saper fermarsi ad ascoltare tutti, incurante di sé stesso.
Con la presenza di padre Giuseppe a Kalongo ci si sentiva sicuri: perché con la stessa devozione con cui stringeva tra le mani l’ostia consacrata, si prendeva anche cura dell’ultimo ammalato. Dio e la persona erano divenute in lui una sola cosa: immagine dell’Immagine; altro dell’Altro.
Di questa beatificazione abbiamo tutti bisogno! Ritorna la beatitudine dei miti che garantiscono un nuovo cielo e una nuova terra. E il padre dottor Giuseppe Ambrosoli è stato un mite.
Chi l’ha conosciuto fin dal suo arrivo a Kalongo, l’on. Ambrogio Okulu, ha potuto scrivere: «Il padre dottor Ambrosoli venne in Uganda per amore, lavorò per amore e morì per amore dei suoi poveri contadini. Venne a offrirci le sue doti professionali e il suo impegno per la nostra causa come aveva promesso a Dio».