È una storia lunga quella delle donne migranti che hanno raggiunto l’Italia. Le prime, da sole, per rispondere a una domanda in continua crescita, che riguardava la cura delle case di altre donne che entravano nel mondo del lavoro e avevano bisogno di un aiuto. Erano gli anni Settanta del secolo scorso.
È allora che arrivano le pioniere di una migrazione femminile destinata a crescere nel tempo. Sono antesignane di una emancipazione, viaggiano da sole, eppure rimangono per diverso tempo invisibili. Chiuse in quelle case dove lavorano, in cui sono approdate spesso tramite l’intermediazione di reti cattoliche, che pian piano sostituiranno, diventando esse stesse protagoniste di un network migratorio di chiamate dirette.
Il tempo di capire come funziona in Italia e, già dagli anni Ottanta, vivono non di solo lavoro. Diventano rete per chi arriva, si associano, si sostengono. Rendono le loro fatiche risorse per chi arriva, intrecciano le loro vite con altre che sognano diversi destini: studiare, impegnarsi nella rivendicazione dei diritti di chi vive qui da anni oramai. L’associazionismo femminile migrante inizia a farsi spazio.
Con gli anni Novanta l’invisibilità è oramai scomparsa del tutto. La presenza in ambito domestico è massiccia, lo raccontano i numeri. Alle donne arrivate sole si aggiungono quelle che invece giungono in Italia per ricongiungersi ai mariti che lavorano qui, e quelle che rimangono incastrate nella rete della tratta, che diventano le nuove schiave dello sfruttamento sessuale.
Ai nuovi volti si accompagna una nuova narrazione: non più pioniere, protagoniste di associazionismi, le donne che arrivano, spesso velate, da paesi visti ancora lontani, vengono raccontate come sottomesse, passive. Iniziano così descrizioni riduttive, pregiudiziali, stereotipate che hanno la meglio su tutte quelle che sono le storie di protagonismo femminile.
Così l’affermazione delle donne passa in secondo piano ed emerge la vulnerabilità, nonostante spesso anche le nuove arrivate, dopo le difficoltà del primo periodo, con la nascita e la cura dei propri figli riescono a ridefinire la loro autonomia. A queste si aggiungono poi le figlie, le donne che nascono qui, che crescendo tracciano percorsi di inclusione e interazione inediti per le proprie figure materne.
Presenza stabile e maggioritaria
Il tempo le vede aumentare di numero, così, nonostante quando si parli di immigrazione si raccontino per lo più gli uomini, è femminile più della metà della popolazione straniera residente in Italia. Il report Le migrazioni femminili in Italia. Percorsi di affermazione oltre la vulnerabilità, presentato ieri da Idos e dell’Istituto San Pio V, racconta come a fine 2021 le donne fossero quasi 2,6 milioni (il 50,9%). Rappresentavano circa il 9% dell’intera popolazione femminile del nostro paese ed erano espressione di 192 collettività differenti.
Le prime cinque nazionalità – rumena, albanese, marocchina, ucraina e cinese – contano più di 100mila residenti. Con una distribuzione differente rispetto al rapporto numerico tra i generi: tra le comunità europee e americane sono più le donne degli uomini, tra quelle asiatiche e africane le donne sono minoritarie. La loro età media è di 37,4 anni, più alta di quella maschile, che si ferma a 33,8.
A raccontare la loro lunga permanenza in Italia sono i permessi di soggiorno, quasi 7 donne su 10 (il 68,4%) hanno un titolo di lungo periodo: tra le ucraine lo ha l’83,2%, tra le moldave l’86,2%, tra le capoverdiane (una delle comunità storiche degli anni Settanta) l’82,8%.
Il coraggio e lo sfruttamento lavorativo
Accanto alla presenza stabile vi è poi quella di chi arriva come rifugiata o richiedente asilo. Una presenza che poco si racconta e, quando lo si fa, la si ingabbia nelle stesse celle narrative che veicolano sempre lo stesso stereotipo di donne migranti vittime, statiche e passive. Gabbie che non tengono conto del coraggio delle protagoniste di queste storie di migrazione, che spesso fuggono da forme di oppressione e persecuzione, che durante il viaggio sono più soggette a violenze indicibili.
Donne a cui mancano percorsi di accoglienza improntati sul genere, come se il soggetto da accogliere fosse neutro o forse sarebbe meglio dire maschile includente. Da qui percorsi improntati esclusivamente sugli uomini, in cui le donne subiscono la stessa visione vittimistica e passivizzante che porta a disconoscerne l’autonomia e a limitarla invece che alimentarla. E di questa modalità finiscono per risentire anche i passi successivi all’accoglienza.
I percorsi di inserimento sociale delle donne migrate nel nostro paese offrono opportunità ristrette, spesso circoscritte sempre nei soliti lavori usuranti, sottopagati (se non irregolari) e di bassa qualifica. Confinati a sole tre professioni: collaboratrici domestiche, addette alla cura della persona e alle pulizie. Lavori che risentono del peso del colore e per i quali spesso manca il riconoscimento e la tutela dei diritti sociali, primo fra tutti l’accesso al diritto alla salute.
La loro presenza, nel mercato del lavoro italiano, risulta ancora sottodimensionata. Se il tasso di occupazione femminile in Italia è già tra i più bassi d’Europa, 49,9% a fronte del 64,5%, quello delle donne straniere è ancora peggio: 45,4% a fronte del 58,2%. E questo nonostante le donne (straniere come italiane) siano mediamente più istruite degli uomini. Il 42,5% delle migranti ha un titolo di studio superiore rispetto al lavoro che svolge.
La condizione peggiora poi quando si diventa madri, amplificando l’esclusione lavorativa o l’esposizione al part-time involontario. Quest’ultimo riguarda il 30,6% delle donne straniere, un dato tre volte più alto degli uomini e quasi doppio rispetto alle donne italiane.
Un dato importante è quello che emerge negli ultimi decenni che vedono un allargamento della partecipazione delle immigrate nei settori sempre di cura ma professionali: la categoria degli infermieri stranieri è più che decuplicata in vent’anni. Un settore che è svincolato dai soliti decreti flussi legati al settore domestico o agricolo, per il quale con la pandemia si è semplificato il riconoscimento delle qualifiche sanitarie.
Anche se, occorre aggiungere, che le donne in questo caso lavorano per lo più in strutture private, con posizioni precarie e flessibile e spesso contratti subappaltati e/o esternalizzati a cooperative e con percorsi di dequalificazione.
Aspetto positivo è invece quello delle imprese condotte dalle donne migranti, in Italia nel 2021 erano oltre 156mila, quasi un quarto sul totale delle attività gestite da persone straniere e un nono delle imprese femminili totali. Oltre 7 casi su 10 riguardano i servizi (71,5%), seguite da quelle che riguardano il commercio, servizi di alloggio e ristorazione, poi persona, industria e manifattura.