Ho conosciuto Monsignor Paulino Lukudu Loro nel 1975 quando era amministratore apostolico della diocesi di El Obeid. Questa era la mia prima missione in Sudan. Entrambi avevamo 35 anni e diventammo subito amici. Rimanemmo tali anche quando io andai in altre missioni: a Nyala, nel Darfur, e ad Abyei tra i denka del Sud Sudan. La nostra amicizia continuò anche quando lo ritrovai a Juba nel 2010: lui era l’arcivescovo metropolita dell’arcidiocesi di Juba, io ero il provinciale dei comboniani in Sud Sudan.
Anche se con tanta tristezza per la sua recente ed inaspettata morte, a 80 anni, il 5 aprile, volentieri traccio questo breve ricordo della sua vita che ha avuto un impatto molto positivo nel suo paese, nella crescita della chiesa tra la sua gente e nel cuore di quanti l’hanno conosciuto.
I primi sogni
Devo usare la mia immaginazione nel descrivere la prima parte della sua vita, cioè fino a quando diventò sacerdote a Verona nel 1970. Non amava molto parlare del suo passato personale. La sua attenzione, i suoi interessi e le sue preoccupazioni, erano più concentrati sulla triste situazione del suo paese, con una guerra civile che continuava fin dal 1955. Gli ha sempre causato tanta angoscia la sofferenza della sua gente e l’incertezza generale riguardo al futuro del suo paese, e anche l’incertezza del futuro della giovane Chiesa del Sudan.
Durante la sua infanzia e la sua giovinezza – ha compiuto i suoi studi alle scuole della missione – i missionari sin dagli anni ‘30 avevano iniziato tanti progetti per lo sviluppo del paese: scuole di tutti i tipi e gradi, programmi per il controllo delle malattie tropicali, grandi ospedali e piccoli dispensari ovunque, piantagioni di caffè, di tè, di teak, e tanti altri progetti che sarebbe troppo lungo nominare. Nel 1964 il governo di Khartoum espulse tutti i missionari dal sud del paese, la sua patria. E così, in Sud Sudan rimasero tanti cattolici, pochi preti e tutti giovani, con troppe cose da fare e circondati da tanta confusione ovunque.
Suppongo che in quella triste situazione si sarà ricordato come era diversa la vita al suo villaggio, Kwerijik, vicino a Juba, prima dell’espulsione dei missionari. E si sarà sicuramente ricordato di come tutti, allora, avevano tante speranze e tanto entusiasmo. Ora, dopo l’espulsione dei missionari, tutto era diventato molto tetro: la gente scappava dal paese e per chi restava c’era soltanto fame e morte.
E così, pur con tanta incertezza nel suo cuore, il giovane Paulino Lukudu – un po’ ricordando il passato e un po’ sperando in un futuro migliore – sentì la chiamata del Signore che lo invitava a farsi missionario comboniano. Ma non dev’essere stato per niente facile passare, dalla sera alla mattina, dalla sua capanna di Kwerijik al noviziato comboniano di Firenze; alcuni suoi compagni infatti tornarono presto indietro, ma lui restò e nel 1970 fu ordinato sacerdote nella cattedrale di Verona.
Dopo di che tornò al suo paese e svolse per un breve tempo il suo servizio alla Chiesa in Sud Sudan insieme agli altri preti sudanesi. Poi, nel 1972, dopo l’accordo di Addis Abeba, la congregazione di Propaganda Fide decise di ricostituire la gerarchia della Chiesa cattolica in Sudan. E così padre Paulino Lukudu divenne Monsignor Paulino Lukudu, amministratore apostolico di El Obeid. Aveva 32 anni e dalla sera alla mattina si trovò ‘vescovo’ di una diocesi grande come tre volte l’Italia.
La diocesi di El Obeid si trova al Nord del Sudan, e quindi uno dei suoi primi compiti da vescovo fu quello di dover imparare l’arabo del nord, molto diverso dall’arabo del sud del paese. C’erano tante cose da fare. Essere un vescovo della Chiesa cattolica in un paese musulmano a quel tempo non era certo la cosa più piacevole di questo mondo.
Uno smacco iniziale
Nella diocesi di El Obeid non era solo. Con lui c’erano una trentina di missionari comboniani italiani, suoi confratelli. Ma alcuni di questi, un gruppetto di 3 o 4, imbevuti di spirito sessantottino, cominciarono presto a contestarlo. Tutto quello che diceva, tutto quello che proponeva, sembrava essere o troppo chiuso o troppo aperto. E in fin dei conti gli facevano capire che forse non sapeva fare il vescovo come avrebbero saputo farlo loro. Monsignor Comboni aveva sognato di “Salvare l’Africa con l’Africa”. E forse lui si sentiva investito di questa responsabilità. Ma alcuni confratelli erano troppo convinti che la verità ce l’avevano solo loro, e per questo se n’andarono dalla diocesi.
Penso che questo sia stato il momento più triste nella vita di Monsignor Paulino. Tutto era da fare, le strutture della diocesi erano ancora un po’ in fieri, bisognava inventare tante cose, il mondo musulmano non facilitava certo la vita della Chiesa e la maggior parte dei cristiani erano immigrati dal Sud del paese, nullatenenti e sradicati dalla loro cultura tribale. La collaborazione dei confratelli avrebbe reso la sua vita un po’ meno dura in questa complicata e fragile situazione. E nonostante alcuni missionari gli fossero confratelli solo di nome, lui continuò la sua missione con il massimo della fraternità con tutti.
Mi ricordo che in questo periodo venne due volte a visitare la missione di Nyala, dove io ero. Lui era veramente, usando il linguaggio della Chiesa, il pastore che visita il suo gregge, perché desidera che tutto sia nel modo migliore possibile, e che si preoccupa anche delle piccole cose dei confratelli che gli sono affidati: la buona salute, la serenità e la contentezza di essere in quella missione.
Incontrando i cristiani della missione chiedeva loro se il padre era felice di essere con loro. Perché, diceva alla gente, se il padre non è tanto contento, io sto qua con lui. I cristiani allora facevano un grande applauso. E così, se mi pesava un po’ l’essere da solo in quella missione isolata e lontana, mi passava la malinconia che a volte sentivo, perché sapevo che a lui, mio confratello e mio vescovo, stavano a cuore anche le piccole cose della mia vita.
Nell’arcidiocesi di Juba
Poi per un po’ ci siamo persi di vista. Lui nel 1983 diventò arcivescovo metropolita di Juba e a me in quel tempo venne chiesto di dirigere il Corso di orientamento spirituale del seminario nazionale di Khartoum. Anche se lontani fisicamente, però, rimase viva in noi l’amicizia e lo spirito di fraternità che si erano stabiliti quando eravamo insieme a El Obeid.
Ci incontrammo di nuovo nel 2010, quando fui mandato a Juba come provinciale dei comboniani in Sud Sudan. Monsignor Paulino fu molto contento di accogliermi nella sua diocesi. Ed io gliene sono ancora grato. Ma, purtroppo mi accorsi subito che anche qui il diavolo c’aveva messo la coda. Un malinteso gli inimicò un paio di confratelli. Ancora una cosa molto triste. Un ferita che impiegò un po’ di tempo a rimarginarsi. Ma lui rimase sempre orgoglioso di essere comboniano. Ed anche con quelli di noi comboniani con cui ebbe a scontrarsi, mantenne sempre uno spirito aperto e pronto alla riconciliazione.
La diocesi di Juba, come tutte le diocesi del Sudan, era in un stato un po’ pietoso; la guerra civile aveva impedito qualsiasi organizzazione stabile, qualsiasi progresso, anche minimo, delle varie istituzioni diocesane. Anche il seminario nazionale, che si trovava a Juba, era stato abbandonato ed era diventato dimora delle scimmie e dei topi. Ma c’erano pur sempre le persone. Le istituzioni, i fabbricati potevano aspettare tempi migliori. E così la sua attenzione, all’inizio del suo ministero episcopale a Juba, si concentrò sulle persone: i religiosi, i suoi preti e i tanti poveri che ogni giorno bussavano alla sua porta.
Riorganizzò la vita delle suore del Sacro Cuore e dei fratelli di San Martino de Porres, due congregazioni locali di diritto diocesano. Fu un vero padre per i preti della diocesi; durante la guerra civile la loro vita era stata alquanto difficile. Il nuovo arcivescovo li fece sentire di nuovo una famiglia, in cui lui era il fratello maggiore. I poveri poi, sono sempre stati tanti a Juba, per diversi motivi. Anche per questi Monsignor Paulino è sempre stato un padre buono, che non ha mai mandato via nessuno a mani vuote.
L’amore per la Chiesa
Mi sembra di poter dire che la vita della Chiesa è stata la sua vita. Fin da ragazzo, quando venne battezzato all’età di 10 anni, la Chiesa deve essergli sembrata la maestra di vita; una maestra di cui ci s’innamora perché ti vuol bene e ti fa sentir bene. E lui, attraverso la congregazione dei missionari comboniani, si affidò a questa maestra, entusiasta e pieno di speranze, come un ragazzo innamorato di sua madre, che vede sua madre sempre bella, anche quando ha le rughe.
Infatti, i comboniani sono stati i primi rappresentanti della Chiesa che Monsignor Paulino Lukudu ha conosciuto; facevano tanto bene, la gente era entusiasta per quello che con loro riuscivano a fare, e così sembrava che con loro la vita stava diventando più bella per tutti. Suppongo che proprio questo abbia potuto ispirarlo a diventare anche lui comboniano. E così decise di affidare la sua vita alla Chiesa, in modo da poter continuare per la sua gente quello che aveva visto che la Chiesa aveva fatto per tutto il suo paese, e anche per lui.
Come arcivescovo di Juba intensificò il programma educativo della diocesi. Ogni parrocchia aveva, ed ha, la sua scuola primaria e la sua scuola media, con migliaia di alunni. Ogni parrocchia aveva pure un piccolo dispensario, dove i poveri possono trovare un infermiere che si prende cura dei loro mali e può offrire loro la medicina giusta per le malattie più comuni. E ai poveri che non hanno niente la medicina veniva data gratis.
Con la collaborazione di alcune congregazioni religiose, aprì a Juba una eccellente scuola per infermieri. Questa scuola continua anche ora a formare personale paramedico per tutto il Sud Sudan. Perché non sono poche le zone del paese dove l’unico personale medico, purtroppo, è ancora il ‘medico tradizionale’, mezzo stregone e mezzo esperto delle erbe medicinali.
Nel 2011, alla fine della guerra civile che portò il Sud Sudan all’indipendenza dal nord del paese, con la collaborazione dei missionari comboniani, eresse in diocesi una stazione radio FM, per informare, istruire, guarire le ferite della guerra e aiutare a discernere la via da seguire. 55 anni di guerra civile avevano logorato tutto e tutti. In una situazione quasi disumana, lui, con la sua vicinanza alla gente, col suo coraggio di sperare, anche contro ogni speranza, e con la sua apertura e umiltà a collaborare con chi aveva più forza di lui, è riuscito a infondere coraggio e speranza a tutto un popolo sfiduciato e bistrattato per tanti anni.
L’amore per la sua gente
Gli inglesi lasciarono il Sudan nel 1956. All’epoca Monsignor Paulino aveva 16 anni. La storia del paese da quella data in poi non è stata che un progressivo deterioramento delle relazioni tra gli arabi del nord e le tribù nere del sud. Le stesse tribù del sud non ebbero mai un’opportunità di organizzarsi e cercare insieme di uscire dalla miserevole situazione in cui si trovavano.
Per esempio, in tutto il Sud Sudan c’era una sola scuola secondaria, a Rumbek. Tutti gli insegnanti erano arabi. Ogni anno o quasi, o per un motivo o per un altro, gli studenti ad un certo punto andavano in sciopero. Cosa si faceva? Si chiudeva la scuola. Tutti gli studenti andavano a casa. E all’inizio del nuovo anno scolastico tutti gli studenti erano promossi alla classe superiore.
L’ignoranza nella quale le tribù furono tenute, contribuì a renderle sempre più entità chiuse in sé stesse che vedono gli altri solo come nemici.
Nel 1972 venne istituita l’Università di Juba, ma metà degli studenti erano giovani arabi del nord. E agli studenti del sud che riuscivano ad andare all’Università erano precluse le facoltà più prestigiose. Nessuno ebbe mai il coraggio di chiedere perché. E nessuno cercò mai di svelare la ragione di questo mistero, che tutti conoscevano molto bene: tutta la loro vita bistrattata ne era la spiegazione.
Per ovviare a queste plateali ingiustizie, che hanno di fatto paralizzato la gioventù del Sud Sudan per lungo tempo, Monsignor Paulino agli inizi dell’anno 2000 favorì l’apertura dell’Università Cattolica del Sudan nella città di Wau. E’ stato un inizio umile, ma che ha aperto il cuore di tanti giovani. Lui si sentì sempre solidale coi poveri, gli emarginati, gli esclusi, i giovani del suo paese condannati dal regime del nord ad essere, e rimanere, cittadini di seconda categoria.
Della sua persona, invece, non si preoccupava proprio. Anche la sua casa a Juba non era una gran cosa. Era la stessa che il vescovo comboniano italiano lasciò quando fu espulso nel 1964. E Lui c’è rimasto, senza tanti lavori di modernizzazione, fino al 2019. C’era una specie di portineria dove un tempo si controllava chi entrava e chi usciva, una casetta bassa con una piccola veranda.
Durante i 36 anni, nei quali Monsignor Paulino è stato arcivescovo di Juba, la portineria aveva cambiato funzione: era diventata ritrovo dei poveri che cercavano la carità; era diventata luogo d’incontro di coloro che avevano un litigio da risolvere; ed era diventata un punto di ascolto di chi aveva un problema e non sapeva da chi andare per farsi ascoltare. La prima categoria di ‘clienti’ erano compito di una suora. Le altre due categorie li vedeva il vescovo, personalmente. Era la gente che voleva così. E lui lo faceva molto volentieri. Sempre.
L’amore per il suo paese
In realtà il Sud Sudan non è mai stato una nazione vera e propria. E’ sempre stato un insieme di tribù, spesso in lotta tra di loro per motivi di latrocini di bestiame o di vendette, considerate un dovere sacrosanto. I colonialisti del passato non avevano nessun interesse ad unire il paese. E gli arabi del nord, dopo di loro, si guardarono bene dal farlo.
Il divide et impera dei romani, andava benissimo anche per loro. L’unico momento nel quale le varie tribù si trovarono unite fu durante la guerra civile contro gli arabi, dal 1955 al 2011. Ma anche dopo, i grandi festeggiamenti per l’indipendenza del paese nel 2011, le discordie tra una tribù e l’altra si fecero subito sentire in modo preoccupante.
Voglio qui raccontare un fatto che illustra abbastanza bene come Monsignor Paulino è stato vicino anche ai problemi tribali del suo paese e come, quando ha potuto, ha contribuito a risolverli. Nel 2011, quando l’Esercito per la librazione del Sudan venne a Juba, che era sempre stata sotto il controllo governativo, i soldati avevano ricevuto il permesso di occupare qualsiasi casa o capanna trovata disabitata.
E nel caso che qualcuno si fosse lamentato, questi sarebbe stato arrestato e imprigionato senza alcuna esitazione. Un mio confratello sudanese, della tribù dei didinga, aveva la proprietà di una capanna e di un piccolo terreno circostante. Un soldato della tribù dei denka la trovò vuota, la riparò un po’ e ci andò ad abitare. Quando il mio confratello della tribù dei didinga si accorse che un soldato denka aveva preso la sua capanna, cominciò a infastidire il nuovo inquilino. Questi, senza esitare, lo fece arrestare e sbattere in prigione.
La prigione altro non era che un albero con poche foglie. E i prigionieri dovevano starsene seduti sotto la sua scarsa ombra. Il mangiare dovevano portarlo i parenti e ci si lavava quando pioveva. Quando venimmo a sapere l’accaduto cominciammo a portare da mangiare al nostro confratello prigioniero, che una volta al giorno veniva a lavarsi alla missione accompagnato da un soldato armato.
Quando Monsignor Paulino venne a sapere la cosa mi chiamò per conoscere i dettagli. Il confratello si rifiutava di cedere la vecchia e diroccata capanna che aveva ricevuto in eredità. Quindi L’arcivescovo organizzò un incontro dei due contendenti sotto la veranda dell’ex portineria di cui sopra.
Il soldato denka venne accompagnato dal suo superiore. Vennero presentati i pro e i contro dei due contendenti. Ma entrambi avevano ragione e nessuno voleva cedere. La questione era molto delicata perché il mio confratello non aveva bisogno della capanna. E se invece avesse ceduto, la Chiesa avrebbe indirettamente dimostrato che supportava il nuovo governo, arrivato a Juba fresco fresco. Ovviamente, nel sentire comune non si trattava soltanto di una capanna sgangherata, ma era questione di una tribù contro l’altra. Chi era il più forte? Monsignor Paulino, della tribù dei bari, pur di finire la penosa e pericolosa contesa, scelse di regalare al confratello una propria capanna. E gli ordinò di accettare la nuova capanna per il bene di tutti.
Questo, a prima vista, può sembrare una piccola cosa. Ma in quel momento voleva dire che il vescovo amava tutte le tribù, amava la pace, e amava il suo paese tutto nuovo anche più delle sue proprietà.
L’amore per i suoi preti
Non sembri insignificante quest’ultimo aspetto dell’identità di Monsignor Paulino Lukudu. I religiosi, come i comboniani, hanno le loro comunità che dovrebbero essere come una famiglia, anche se non sempre funziona come dovrebbe, come abbiamo visto proprio nel suo caso. I preti diocesani invece, sono un po’ più liberi. Però, se un vescovo non riesce a creare tra di loro un sano spirito di famiglia, si possono trovare soli e avere l’impressione di essere abbandonati a se stessi.
Mi ricordo tante cose belle riguardo a questo. Per esempio, mi ricordo che un giorno un giovane prete, psicologicamente fragile, e che per questo abitava col vescovo, non voleva andare a celebrare Messa, perché aveva paura di sbagliare, di far brutta figura. In mia presenza Monsignor Paulino gli disse, “Guarda che anche gli altri preti qualche volta sbagliano. Anch’io qualche volta… è per questo che mi faccio accompagnare dal mio segretario. Viene con te una suora. E lei è come il tuo segretario”. Il giovane prete sorrise e andò. Ed io immaginai che quel giovane prete avesse sorriso perché il vescovo era comunque dalla sua parte e gli voleva bene. Quasi quasi sembrava svanita anche la sua fragilità.
Nella maggior parte delle diocesi del mondo c’è sempre la cosiddetta Casa del clero, dove normalmente si ritirano i preti ammalati e anziani, quando ‘vanno in pensione’. Ma a Juba non c’è ancora una simile casa, e allora i preti anziani e ammalati li accoglieva l’arcivescovo nella sua casa. M’è capitato un paio di volte di far colazione con loro. C’era un genuino spirito di famiglia, veramente invidiabile. Un vecchio prete non è sempre la persona più gradevole che si possa incontrare e con cui vivere. Questo si poteva notare anche nella casa dell’arcivescovo di Juba. “Ma sono i miei preti, mi disse, han speso la vita per la Chiesa come me, e nella gioia come nel dolore siamo diventati fratelli.”
Epilogo di una vita donata
Questo ai miei occhi era Monsignor Paulino Lukudu Loro: un comboniano, un uomo di Dio, un vescovo della Chiesa cattolica che, in tempi non facili per il Sud Sudan, si è speso tutto per il bene della sua gente, del suo paese e della Chiesa che il Signore gli aveva affidato.
Gli apostoli che avevano visto il Signore Risorto son stati le colonne della chiesa primitiva, una realtà tutta nuova. Monsignor Paulino, avendo visto che la chiesa poteva far risorgere il suo paese e introdurlo in una fase tutta nuova, con tanta speranza per giorni migliori, è stato una colonna della giovane Chiesa cattolica a El Obeid ed a Juba. In entrambe le diocesi, nonostante le difficoltà, ha saputo essere un vero pastore del popolo santo di Dio.
Significativamente, il Signore l’ha chiamato a se il Lunedì di Pasqua, 5 aprile 2021. L’ha chiamato a contemplare dall’alto le Chiese che lui ha guidato. Entrambe queste Chiese in lui hanno avuto un grande pastore e un grande maestro. Gli esempi che lui vi ha lasciato le aiuterà per molto tempo a seguire il Signore con fiducia, con ottimismo e con gioia, come hanno imparato a fare sotto la sua guida per tanti anni.