Sono tornate le tensioni nel Mediterraneo centrale. Il 6 maggio la guardia costiera libica ha sparato verso tre pescherecci italiani, partiti da Mazara Del Vallo, e che si trovavano a circa 35 miglia dal porto di al-Khums, in Tripolitania, ferendo ad un braccio il comandante dell’Aliseo. Lo scorso 3 maggio, miliziani libici avevano tentato di sequestrare il peschereccio Michele Giacalone, rendendo necessario l’intervento della marina militare. Mentre continuano ad aumentare sbarchi e vittime tra i migranti.
Secondo i dati dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), nei primi mesi del 2021 sono stati almeno 500 i migranti che hanno perso la vita cercando di attraversare il Mediterraneo, un aumento molto significativo rispetto alle 150 vittime dello stesso periodo del 2020 (+200%). Non solo, se dal 2015 gli sbarchi di migranti in Europa sono andati calando, gli arrivi via mare in Italia nel 2021 hanno superato i 10.400, un aumento di oltre il 170% rispetto allo stesso periodo del 2020.
«I numeri crescenti di vittime e arrivi sono legati all’attività dei trafficanti e alle condizioni meteo», ha spiegato a Nigrizia Carlotta Sami, portavoce dell’Unhcr. «Dalle prime ore di sabato 1° maggio sono sbarcate in Italia circa 1.500 persone soccorse dalla guardia costiera o da ong internazionali nel Mediterraneo», ha aggiunto Sami «La maggior parte delle persone arrivate è partita dalla Libia a bordo di imbarcazioni fragili e avevano lanciato varie richieste di soccorso».
I migranti provenivano soprattutto da Mali, Eritrea, Sahel e dal Nord Africa. E molti di loro sono bambini e ragazzi. «Abbiamo raccolto testimonianze di bambini che ci hanno parlato di prigionia e brutalità senza rispetto per la vita umana», ha detto Sami. «Questa tragica perdita di vite sottolinea la necessità di ristabilire un sistema di operazioni di ricerca e soccorso nel Mediterraneo centrale coordinato dagli stati», ha continuato Sami.
Non solo, l’Unhcr ha sollecitato la comunità internazionale a «fare di più per rafforzare la protezione delle persone che viaggiano lungo questa rotta e per fornire alternative sicure a questi viaggi pericolosi e disperati». In particolare devono essere estesi «percorsi legali come corridoi umanitari, evacuazioni, reinsediamento e i ricongiungimenti familiari».
Ancora una volta la causa dell’aumento degli sbarchi potrebbe essere dovuta ai tentativi delle milizie libiche di accreditarsi agli occhi della comunità internazionale. «Gli esclusi dal governo di unità nazionale cercano di accreditarsi in vista delle elezioni che dovrebbero tenersi a dicembre e per avere voce in capitolo nelle ripartizioni dei profitti dei terminal petroliferi», ci ha spiegato l’esperta di Libia, Michela Mercuri.
Sebbene la Libia non sia un “porto sicuro”, «in questa fase, molti migranti non vorrebbero partire, ma vengono costretti a partire lo stesso dalle milizie locali perché uno stop delle partenze non dà frutti agli scafisti», ha aggiunto la docente di Geopolitica del Medio Oriente all’Università Niccolò Cusano.
Italia-Libia e flussi migratori
In prima fila per tornare a fare affari con la Libia c’è proprio l’Italia. «Abbiamo chiesto collaborazione e sostegno per la stabilità della Libia, in particolare per creare nuove opportunità di investimento economico», ha spiegato il ministro degli Esteri italiano, Luigi Di Maio, al G7 di Londra dello scorso 5 maggio.
«Le imprese italiane ricominceranno a costruire l’autostrada dal confine tunisino a quello egiziano, l’aeroporto di Tripoli e abbiamo avviato un percorso per la ricostruzione dell’aeroporto di Bengasi», ha aggiunto Di Maio. Nei giorni scorsi la diplomazia italiana aveva anche fatto riferimento a una possibile riapertura del Consolato generale di Bengasi mentre sarebbe in programmazione una visita a Roma del primo ministro libico, Abdul Hamid Dbeibah.
Anche nella visita dello scorso aprile a Tripoli del premier italiano, Mario Draghi aveva parlato di cooperazione economica, ringraziando le autorità libiche per i «salvataggi in mare». Queste dichiarazioni avevano destato non poche polemiche, mentre continuano in Libia il business delle migrazioni, i crimini commessi nei centri di detenzione per migranti, le responsabilità delle milizie che tengono Italia e Unione europea sotto il ricatto di continui sbarchi.
Non è la prima volta che l’Italia ha riconosciuto il ruolo libico nella gestione dei flussi. Nel 1998, il colonnello Muammar Gheddafi si mostrò incline a stipulare un patto con l’Italia per la lotta al terrorismo. Le cose non sono cambiate molto neppure con i governi di centro-destra.
In virtù dell’accordo siglato nel 2008 tra il colonnello e l’ex premier, Silvio Berlusconi, in tema di gas e contenimento dell’immigrazione, Gheddafi instaurò un sistema di pattugliamento delle coste per contenere il traffico clandestino di disperati in fuga dai paesi sub-sahariani, sebbene la Libia non avesse aderito alla Convenzione sullo status dei rifugiati del 1951.
Dopo il 2011, in seguito ai disastrosi attacchi della Nato, l’Italia ha rinunciato a ricoprire un ruolo centrale in Libia in favore di altri paesi. Da quel momento le autorità italiane hanno fatto fatica a recuperare terreno, vedendo sempre più messi in pericolo gli interessi che l’ex colonizzatore aveva nel paese, in particolare in materia di accordi petroliferi, a favore di compagnie francesi e inglesi.
Anche l’ex premier Paolo Gentiloni ha più volte tentato di correre ai ripari, dichiarando di “non voler rassegnarsi alla dissoluzione della Libia” e proponendo un intervento di peacekeeping. Per questo non stupisce che, nonostante il caos, l’ambasciata italiana di Tripoli sia rimasta una delle poche in funzione mentre imperversava la guerra degli ultimi dieci anni.
Con le operazioni EunavforMed e Sophia, e gli accordi bilaterali tra Italia e Libia, voluti dall’ex ministro dell’Interno, Marco Minniti, è andato crescendo il ruolo della corrotta guardia costiera e delle municipalità libiche nel controllo dei flussi – con la firma del memorandum di intesa del 2017 -, sebbene i migranti che transitano per il paese siano stati sottoposti a regimi di detenzione duri e alla costante violazione dei loro diritti.
E così anche la Libia del post-Gheddafi ha continuato ad essere un incubo per i migranti. Il governo islamista di Tripoli si era affrettato a stracciare l’accordo con il governo del Sudan che prevedeva una forza congiunta per la sicurezza delle frontiere tra i due paesi africani, mentre l’ex ministro della Difesa libico, il colonnello Abdul Razzaq al-Shihabi, per controllare la frontiera con il Sudan, aveva puntato sulla cooperazione con il governo italiano con l’intento di organizzare una copertura satellitare dell’area.
Le coste libiche sono diventate così la strada più semplice per l’Europa per scafisti e contrabbandieri. A causa delle violenze e del caos, alimentati dagli interessi internazionali della guerra per procura, il numero di migranti che ha tentato di lasciare il paese è andato crescendo. Non solo, Amnesty International ha sempre puntato il dito anche contro le operazioni di Ricerca e soccorso in mare (Sar) e sul progressivo fallimento degli stati coinvolti, specialmente Italia e Malta, che non sono riusciti a raggiungere un accordo in merito all’estensione delle rispettive zone Sar.
Da Prodi a Berlusconi, da Gentiloni a Minniti e ora con Di Maio e Draghi, i trafficanti libici continuano a fare affari d’oro sulle spalle di disperati, usati come merce di scambio, per accreditarsi nei confronti di Ue e organizzazioni internazionali come gli unici interlocutori davvero capaci di tenere sotto controllo i crescenti flussi migratori nel Mediterraneo.
Da Frontex a Mare Nostrum, da Triton a EunavforMed, i fallimentari tentativi europei di tenere sotto controllo un fenomeno alimentato dai conflitti regionali, mal gestiti da Stati Uniti, Russia, Francia e Gran Bretagna, hanno prodotto effetti dirompenti di cui l’Italia per prima ha continuato a subire le conseguenze.
I nuovi equilibri interni e il ruolo della Turchia
Sebbene gli equilibri in politica interna siano cambiati da inizio 2021, la nuova classe dirigente libica fatica a controllare le partenze di migranti, soprattutto dal porto di Zawiya. Sin dalla conferenza di Berlino del gennaio 2020 e grazie alla mediazione tedesca, molti osservatori hanno puntato sul processo di riconciliazione nazionale inclusivo.
Grandi attese si sono concentrate sull’imprenditore di Misurata, il nuovo premier, Abdul Hamid Mohammed Dbeibah, amico di Seif al-Islam, uno dei figli di Gheddafi, e accusato di corruzione, designato nel febbraio scorso durante il Forum del dialogo libico di Ginevra per favorire il processo di riconciliazione nazionale.
Politici di lungo corso come Ahmed Maiteeg, Salahuddin al-Namrush e Khalid al-Mishri e l’ostilità del generale Khalifa Haftar, hanno portato alla nomina di Dbeibah con il sostegno della Fratellanza musulmana libica che ha incassato anche la presidenza del Consiglio presidenziale, in quota Tobruk, di Mohamed al-Menfi.
Le stesse fazioni islamiste che hanno goduto del sostegno turco, anche con l’impiego degli aerei turchi senza pilota Bayraktar e dei miliziani turcomanni, concretizzatosi con il Memorandum of Understanding (MoU) del novembre 2019 che aveva spinto Khalifa Haftar, sostenuto da Egitto e Arabia Saudita, a marciare verso Tripoli.
A conferma della centralità turca negli equilibri di potere nella Libia del dopo al-Sarraj – e in seguito alle parole del premier italiano Mario Draghi, che aveva definito il presidente turco Recep Tayyip Erdogan un “dittatore” con cui cooperare -, Dbeibah si era recato in visita in Turchia, lo scorso 12 aprile, a capo di una delegazione composta da 14 ministri e alti funzionari governativi, per parlare di cooperazione commerciale, energetica e sanitaria. Gli incontri erano stati preceduti da due visite a Istanbul del capo del Consiglio presidenziale libico al-Menfi, in cui si è discusso invece del ritorno delle imprese turche in Libia.