Vent’anni. L’età in cui non si è più adolescenti. L’età della maturità.
L’Unione africana (Ua) compie vent’anni. È nata ufficialmente con il primo vertice dei capi di stato e di governo del 9 luglio 2002 a Durban, in Sudafrica, durante il quale ne assunse la presidenza Thabo Mbeki, presidente sudafricano.
La sua istituzione doveva segnare uno scarto rispetto al passato recente, quello dell’Organizzazione per l’unità africana (Oua). Doveva rappresentare la ripresa di quella visione unitaria del futuro politico dell’Africa messa in ombra dall’enfasi, posta nei decenni precedenti, sulla difesa delle conquiste della decolonizzazione e della sovrana indipendenza dei nuovi stati.
Si decise di alzare l’asticella. Questa volta la sfida non sarebbe stata gestire le posizioni acquisite, ma puntare a una vera e propria unione continentale, con tanto di esercito africano, mercato integrato e banca centrale.
Dopo vent’anni, sono obiettivi centrati? L’atto costitutivo dell’Ua, al netto dell’enfasi con cui è stato presentato, ha davvero le potenzialità per fare da base a un processo di integrazione che si vuole persino più avanzato rispetto a quello dell’Unione europea? O si è trattato di un restyling della vecchia Carta dell’Oua?
Le domande sono impegnative. Forse imbarazzanti. Soprattutto perché è opinione diffusa nel continente che l’Ua e la sua burocrazia siano diventate un club di vecchi, inaccessibili ai comuni cittadini africani.
Domande, tuttavia, che meritano almeno un tentativo di risposta.
La nascita
Il processo che ha portato all’eutanasia dell’Oua e alla nascita dell’Ua è stato decisamente breve: poco più di due anni. Fin dal vertice di Lomé (Togo) nel 2000, tutti gli stati avevano già firmato il nuovo trattato istitutivo dell’Ua. Anche i paesi più scettici (Kenya, Ghana, Uganda).
Si decise di strutturare l’organizzazione ricalcando, in molti aspetti, l’esempio dell’Unione europea. Ma si decise di attribuire i compiti di gran lunga più rilevanti alla Conferenza (o Assemblea) dei capi di stato, coadiuvata dal Consiglio esecutivo. La Commissione, invece, è un organo tecnico, la cui influenza è alquanto limitata non avendo poteri esecutivi e di proposta propri della Commissione europea, e tende a essere strettamente controllato dagli stati.
Quanto al Parlamento panafricano, il suo ruolo è essenzialmente consultivo.
Gli obiettivi dei “padri costituenti”
Alti gli obiettivi che si sono posti i “padri costituenti”: «promuovere i principi e le istituzioni democratiche, la partecipazione popolare e la good governance»; «promuovere e proteggere i diritti umani», assieme «all’uguaglianza di genere» e al «rispetto per la sacralità della vita umana, la condanna e il ripudio dell’impunità e dell’omicidio politico, degli atti di terrorismo e delle attività sovversive». Infine tra i principi declamati anche la condanna e il rigetto dei «cambiamenti incostituzionali di governo».
Si tratta di impegni che rispecchiano l’importanza che in quegli anni avevano assunto in ambito internazionale la clausola democratica e quella dei diritti umani come criteri di legittimazione dei soggetti internazionali.
L’applicazione della Dichiarazione di Lomé
Lo strumento principale di cui si era dotata l’Ua era la Dichiarazione di Lomé del 2000, con la quale i paesi africani avevano stabilito un protocollo per la condanna dei colpi di stato e l’espulsione degli stati membri inadempienti. Questa norma è stata applicata in Egitto (2013), Burkina Faso (2015, 2022), Guinea (2021), Mali (2020, 2021) e Sudan (2019, 2022).
In altre situazioni, invece, l’Unione non si è pronunciata, come ad esempio in Zimbabwe e in Ciad, rispettivamente nel 2017 e nel 2021. Non solo. Anche nei casi in cui l’Ua ha attuato il protocollo, le modalità di riabilitazione spesso non sono chiare, in quanto la maggior parte dei trasgressori finisce per rientrare nell’Unione con poche o nessuna conseguenza.
Se si osserva ciò che è successo in Africa negli ultimi due anni, qualche certezza si consolida sull’incapacità dell’Ua di dare corpo alle sfide che si era assegnata. Soprattutto nella gestione delle transizioni politiche non democratiche. Tra il 2021 e il 2022, si sono verificati almeno cinque colpi di stato: in Burkina Faso, Ciad, Guinea, Mali e Sudan.
Inoltre è scoppiata la guerra civile in Etiopia nella regione del Tigray e le insurrezioni islamiste sempre più invasive nella regione del Sahel e in Mozambico.
Nonostante i bla-bla-bla, in nessuna di queste crisi è stato decisivo l’intervento dell’Ua.
Scarso sostegno ai processi di democratizzazione
La diplomazia africana, poi, fa ancora fatica a svolgere un ruolo efficace a sostegno dei processi di democratizzazione. Così, in numerosi paesi lo svolgimento di elezioni si associa a pratiche autoritarie di gestione del potere, mentre il permanere di alti tassi di povertà mina la legittimità delle istituzioni politiche nazionali.
Tuttavia, queste criticità non oscurano gli esempi positivi di transizioni elettorali pacifiche. Ad esempio, il trasferimento del potere dall’ex presidente Edgar Lungu, sconfitto da Hakainde Hichilema nelle elezioni presidenziali dello Zambia del 2021. Analogamente, le elezioni presidenziali del 2020 in Malawi si sono concluse con successo, segnando la prima sconfitta di un leader africano in carica dopo che si è ritornati alle urne per decisione del tribunale.
Pure la recente transizione politica in Gambia fa sperare in una progressiva pacificazione del continente.
Missioni fallimentari
A conferma, tuttavia, che è ancora lontano dall’essere realizzato il quarto punto («Un’Africa in pace e sicura») dei sette stilati dall’Agenda 2063 dell’Ua, Agenda 2063: The Africa We Want, è sufficiente analizzare il quadro disastrato delle missioni di peacekeeping. Sulla carta, il 2020 avrebbe dovuto essere l’anno della messa a tacere delle armi in tutto il continente. E, invece, la realtà è ben diversa, con l’Ua che assiste impotente al proliferare di focolai di crisi e tensioni interetniche e religiose.
Dal 2004, anno in cui è stato fondato il Peace and Security Council (Psc), pilastro dell’African Peace and Security Architecture (Apsa), si stima che siano state schierate circa 70mila unità tra peacekeeper e agenti di polizia. Un dispiegamento di forze massiccio che, però, non ha prodotto i risultati sperati. E con una spesa rilevante.
Bilancio 2022
Solo per la pace e la sicurezza sono previsti nel bilancio 2022 dell’Ua 279 milioni di dollari. Voce ancora largamente finanziata dai donatori. Il bilancio approvato è di 650 milioni. Di questi, 176 milioni di dollari sono destinati alle operazioni generali e 195 milioni ai programmi. I contributi degli stati membri coprono il 72% di questi costi operativi, il che, per quanto lodevole, è ancora al di sotto dell’obiettivo di autofinanziamento.
Una situazione che rende l’Ua finanziariamente debole e dipendente dai donatori esterni
Struttura deficitaria
Ma l’Ua è fragile anche perché restano deboli i suoi organi legislativi, giudiziari e tecnici, soprattutto rispetto all’Assemblea dei capi di stato e di governo, che comprende i leader dei 55 stati membri. Assemblea che si riunisce una volta all’anno in sessione ordinaria e ogni volta che lo richiedano due terzi degli stati membri.
Il parlamento panafricano e il Consiglio economico, sociale e culturale, concepiti per dare voce alle organizzazioni della società civile all’interno delle istituzioni dell’Ua, rimangono organi consultivi privi di potere.
La Corte africana per i diritti umani e dei popoli, istituita per proteggere i diritti umani e ridurre l’impunità a livello nazionale, rimane bloccata. Solo 32 paesi hanno ratificato il suo protocollo e di questi, solo 8 accettano la sua giurisdizione per ascoltare le denunce dei cittadini. Inoltre, non è autorizzata a sanzionare o indagare i presidenti in carica.
C’è poi la Commissione a cui spetta l’attuazione delle decisioni assunte dai capi di stato. Non si possono addossare tutte le colpe delle esitazioni, dei ritardi e dei fallimenti di questi anni alla gestione del ciadiano Faki Mahamat, in carica dal 2017. Il vero successo sotto il suo mandato è stata la firma, il 21 marzo 2018, a Kigali, da parte di 44 stati membri dell’accordo che ha istituito l’area di libero scambio continentale africana, AfCFTA nell’acronimo inglese. È previsto che l’accordo sia implementato nel corso di 10-15 anni e che includa circa il 90% di tutti i beni.
Il più grande accordo di libero scambio
Come ha ricordato Aldo Pigoli – docente di Storia dell’Africa contemporanea all’Università Cattolica del Sacro Cuore – si tratta del «più grande accordo di libero scambio al mondo. La riduzione dei costi commerciali per gli esportatori è di estrema importanza dal momento in cui le imprese africane che commerciano con altri paesi della regione devono sottostare a tariffe in media più alte (circa il 6,1%) rispetto a quelle del commercio extra-regionale».
È indubbiamente un passo più che considerevole all’interno del processo d’integrazione africana, ribadisce Pigoli. «La speranza è che l’accordo dia il via a una nuova traiettoria di sviluppo. Se tutti gli stati membri Ua dovessero implementare l’accordo, l’AfCFTA rappresenterebbe un mercato di 1,2 miliardi di persone e di 2,5 trilioni di dollari. Un mercato considerevole che offre opportunità enormi per la crescita del commercio intra-africano, che nel 2016 ammontava a circa il 20% del commercio totale dell’Africa».
Rappresenta il progetto più importante nell’ambito dell’Agenda 2063 dell’Ua, che stabilisce le aree prioritarie per lo sviluppo del continente nei prossimi cinquant’anni.
Frustrazioni diffuse
Tuttavia, la mancanza di volontà politica di potenziare le istituzioni regionali dell’Ua indebolisce, inevitabilmente, l’impegno e una politica comune. Ed è significativo che siano molti degli stessi capi di stato a non volere un organismo sovranazionale funzionale, che dia potere ai cittadini, responsabilizzando i leader.
La frustrazione diffusa per queste incoerenze porta alcuni africani a liquidare l’Ua come un “club di presidenti” sullo stampo del suo predecessore, l’Oua, che ha affrontato critiche simili anche da parte di padri fondatori, come il defunto presidente tanzaniano Julius Nyerere.
Più di un terzo degli africani si sente estraneo all’Ua o non ha alcuna opinione in merito. Alcuni sostengono che la struttura dovrebbe essere sciolta perché è perennemente in difficoltà economiche.
Altri, al contrario, ritengono che sia ingiustamente giudicata sulla base di ideali impossibili, poiché in ultima analisi è un’organizzazione di stati membri che devono impegnarsi a rispettare delle norme.
Di certo, solo quando l’Ua diventerà veramente panafricana, incentrata sulle persone e democratica, i cittadini africani sentiranno di poter sostenere e difendere prontamente le sue decisioni.
Ma la sua inconsistenza politica si è vista con lo scoppio della guerra in Ucraìna. Da subito si è capito che l’Africa avrebbe pagato caro il conflitto scatenato dall’invasione russa. E se il conflitto dovesse impantanarsi, la situazione potrebbe diventare insostenibile per il continente. Eppure nelle aule degli organismi internazionali l’Africa non è stata rappresentata da una sola voce. Ciascun paese si è mosso in base ai suoi interessi.
Unità vo’ cercando…