Doveva essere il summit dedicato al rilancio e la consacrazione del monumentale AfCFTA, l’accordo di libero commercio a livello continentale. Perlomeno, questo era il tema principale scelto per il summit annuale dell’Unione Africana, che si è concluso nel weekend ad Addis-Abeba.
Invece, a giudicare dalla copertura della stampa internazionale, non c’è molto da aspettarsi su questo fronte. Dalla Bbc, a Rfi, passando per l’agenzia cinese Xinhua, si sono visti solo dei proclami di circostanza.
Un’occasione persa per un trattato dalle potenzialità enormi, partito ufficialmente e in pompa magna, nel 2019. Da allora, il commercio intra-africano è rimasto al 15% di quello totale con i paesi esteri. L’obiettivo di raggiungere il 60% entro il 2034 sembra ancora lontano.
Quello appena conclusosi, è stato quindi un summit protocollare, in cui sono state reiterate molte posizioni note, come il mantenimento delle sospensioni dei tre paesi golpisti: Mali, Burkina Faso e Guinea.
È stata affrontata anche la questione della crisi nel nord-est della Repubblica democratica del Congo, prevedibilmente senza aggiungere niente di incisivo.
Tra gli ‘’output’’ più pratici e tangibili se ne contano due.
Primo: l’entrata in carica alla testa dell’Ua, di Azali Assoumani presidente delle isole Comore, che sostituisce Macky Sall, il suo omologo del Senegal. Ma la presidenza è assegnata su base annuale e a rotazione, per cui niente di sorprendente.
L’espulsione dalla platea
Più intrigante il secondo output: la cacciata di un diplomatico israeliano. Un fatto che è diventata la notizia più ripresa dai media. Cosa comprensibile, dato che non capita spesso di assistere a incidenti del genere.
Sharon Bar-Lì, ambasciatrice e vicedirettrice della sezione Africa al ministero degli esteri israeliano, è stata portata via da agenti di sicurezza durante la cerimonia di apertura del summit. La motivazione ufficiale: non era la persona correttamente accreditata a presenziare all’evento.
Ebba Kalondo, il portavoce dell’Unione Africana ha dichiarato che l’invito – non trasferibile ad una persona terza – era stato rivolto ad Aleli Admasu, l’ambasciatore israeliano all’Ua.
«È spiacevole che la persona in questione abbia abusato della nostra cortesia» ha aggiunto Kalondo.
Tel Aviv non l’ha presa bene. Ha dichiarato che l’accredito era da ritenersi valido e che l’espulsione ha avuto luogo solo per la decisione di due stati «guidati dall’odio nei suoi confronti», come Sudafrica e Algeria. Ma non solo. Ha anche affermato – dando alla disputa un taglio da crisi medio-orientale – che dietro la decisione ci sarebbe lo zampino di uno dei suoi arci-rivali, l’Iran.
Quanto c’è di vero in queste accuse?
Senz’altro, Sudafrica e Algeria sono diplomaticamente lontani da Israele, e da molti decenni. Johannesburg qualifica come apartheid il regime in cui lo stato israeliano sottomette la popolazione palestinese (come del resto fa Amnesty International). Mentre l’Algeria – oltre a essere uno storico sostenitore della lotta armata di Mandela all’epoca della clandestinità del suo partito, l’Anc – fa parte del fronte dei paesi arabi opposti ad Israele.
Il nervo scoperto della questione palestinese
E la posizione dell’Unione Africana? Qui c’è un mezzo pasticcio. Nel summit del 2021, l’Ua ha condannato ufficialmente Tel Aviv per l’occupazione dei territori palestinesi. Solo pochi mesi dopo, l’allora presidente di turno, il ciadiano Moussa Faki Mahamat, aveva unilateralmente assegnato il ruolo di osservatore esterno ad Israele. Una decisione che vari stati membri avevano contestato e poi portato alla sospensione.
Una possibile soluzione si era paventata sotto Macky Sall nel 2022. Sua la proposta di creare un comitato ad hoc, da cui ottenere un parere nel 2023.
Ma per ora, non c’è traccia né del parere, né tantomeno del comitato.
Per cui, Clayson Monyela, un membro della diplomazia sudafricana, ha risposto alle accuse dicendo che «fino a quando l’Ua non prende una decisione sulla concessione dello status di osservatore ad Israele, non gli si può riservare un posto al summit. Quindi, non c’entrano tanto Sudafrica o Algeria, è una questione di principio.»
Rimarrebbe da capire il perché l’ambasciatrice Bar-Ali si è ritrovata a sostituire il collega Admasu e chi le ha dato quel tesserino di partecipazione. Al di là della confusione amministrativa-diplomatica, ne emerge che la questione israelo-palestinese scalda ancora gli animi ad Addis-Abeba.