«Il mondo sta pagando il prezzo per non aver risposto adeguatamente nel 2017», quando cioè si è capito che il virus delle scimmie – comparso soprattutto in Nigeria e Repubblica democratica del Congo (RdC) – che sembrava essere confinato nelle aree rurali, dove i cacciatori entravano in contatto con gli animali, si stava diffondendo anche negli ambienti urbani.
Lo dice Adesola Yinka-Ogunleye, epidemiologa del Nigeria Centre for Disease Control ad Abuja. Da quella data lei e altri studiosi africani avevano avvertito che il virus si stava diffondendo in un modo sconosciuto. Avvertimenti che non hanno sortito reazioni utili e immediate da parte delle istituzioni internazionali e dei paesi occidentali che oggi si trovano ad affrontare l’emergenza con molti dubbi e incertezze.
Dubbi e incertezze che riguardano il modo e l’ambito di diffusione e l’origine stessa della malattia, scoperta per la prima volta nel 1958 in una colonia di scimmie catturate per esperimenti di laboratorio. Ma che possono contare sui vaccini, contrariamente alla maggior parte dei paesi africani.
Eppure, avverte Dimie Ogoina, medico di malattie infettive presso la Niger Delta University di Amassoma, in Nigeria «soluzioni isolate che risolvono il problema solo per i paesi sviluppati e lasciano fuori quelli in via di sviluppo ci guideranno attraverso un ciclo difficile da fermare», così come accaduto in passato, quando un agente patogeno ha continuato a riemergere. «È solo una questione di tempo», afferma Ogoina.
Alcune nazioni africane hanno affrontato epidemie di monkeypox da quando gli scienziati hanno identificato il primo caso umano nella RdC nel 1970. Sebbene non si sappia con precisione quali animali ospitano il virus, è noto che circoli tra molte specie di roditori e può trasmettersi dagli animali all’uomo. Un focolaio significativo è iniziato in Nigeria nel 2017, con oltre 200 casi confermati e 500 sospetti. Negli ultimi dieci anni, la RdC, dal canto suo, ha visto migliaia di casi sospetti e centinaia di decessi. In Africa centrale, il ceppo del virus sembra più virulento, con un tasso di mortalità di circa il 10%.
Tutto questo era noto alla comunità scientifica internazionale. Queste e altre considerazioni sono state affidate alla rivista scientifica Nature che in un ampio articolo – sostenuto dall’intervento di esperti africani – ripercorre la storia di monkeypox ma anche la mancanza di investimenti per studiare il virus e combatterlo.
A questo proposito citiamo anche gli interventi di Christian Happi, direttore dell’African Centre of Excellence for Genomics of Infectious Diseases, e Shabir Mahdi, professore di vaccinologia all’Università di Witwatersrand a Johannesburg, che avevano posto l’accento su due questioni.
Una riguarda i modelli di trasmissione che suggeriscono che qualcosa di diverso sta accadendo in Europa e che quindi richiede un’indagine su come il virus sia cambiato e perché; l’altra riguarda la sospensione delle campagne di vaccinazione contro il vaiolo dopo l’eradicazione della malattia nel 1980.
Sospensione che potrebbe inavvertitamente aiutare la diffusione del vaiolo delle scimmie. «Non avere alcuna vaccinazione contro il vaiolo significa che nessuno ha alcun tipo di immunità a quello delle scimmie», ha detto Happi. È quello che affermano gli stessi epidemiologi che hanno scritto su Nature: «Se i casi di vaiolo delle scimmie nell’Africa subsahariana sono in aumento da anni, ciò è dovuto in parte al fatto che si è interrotta la somministrazione dei vaccini contro il vaiolo».
«Il vaiolo – si ricorda – è un virus strettamente correlato a quello che causa il vaiolo delle scimmie». Steve Ahuka, virologo dell’Università di Kinshasa, afferma che questi vaccini sarebbero utili per affrontare i focolai in Africa, ma i paesi africani non hanno grandi scorte e le nazioni occidentali non li hanno condivisi. Vaccini che, dicono gli esperti, si potrebbero somministrare agli operatori sanitari, ai tecnici di laboratorio esposti in prima linea, a persone con un sistema immunitario compromesso e a coloro che incontrano frequentemente la fauna selvatica.
Il timore è quello di essere lasciati indietro – dicono alcuni funzionari sanitari dell’Africa subsahariana – così come accaduto per la pandemia di Covid-19. Sebbene il numero dei casi stia aumentando, solo il 18,4% delle persone in Africa è stato vaccinato contro il coronavirus Sars-CoV-2, rispetto al 74,8% nei paesi ad alto reddito.
Intanto, si sottolinea che i paesi membri dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) hanno promesso più di 31 milioni di dosi di vaccino contro il vaiolo all’agenzia per le emergenze, ma queste non sono mai state distribuite in Africa per l’uso contro il monkeypox.
Parte del motivo, afferma Rosamund Lewis, responsabile tecnico per il vaiolo delle scimmie presso l’Oms, è che alcune delle scorte promesse dall’agenzia sono costituite da vaccini di “prima generazione” che possono avere gravi effetti collaterali e non sono raccomandati per il monkeypox, meno mortale del vaiolo.
Cita anche “problemi normativi”, perché alcuni paesi membri hanno concesso in licenza i vaccini solo per l’uso contro il vaiolo, ma non contro quello delle scimmie. E mentre la diffusione negli Stati Uniti e in Europa in individui che non si sono mai recati in Africa suggerisce l’esigenza di mirati approfondimenti scientifici, l’Oms ha riconosciuto la necessità di combattere lo stigma – e l’improprio trattamento anche sui media della questione.
Per cominciare i casi e i decessi nell’Africa subsahariana e nel resto del mondo non saranno più contati separatamente, essendo necessaria «una risposta unificata», ha detto il direttore generale dell’Oms, Tedros Ghebreyesus. Inoltre, è in esame la proposta di cambiare il nome dei ceppi virali del monkeypox – attualmente chiamati clade dell’Africa occidentale e clade del bacino del Congo – vista e considerata l’insolita geografia della diffusione del virus.
Intanto, l’Oms ha deciso di non dichiarare quella del monkeypox un’emergenza internazionale. Tra il 1° gennaio 2022 e metà giugno 2022 ci sono stati più di 3.200 casi confermati in 48 paesi e un decesso (in Nigeria). Il vaiolo delle scimmie in genere provoca febbre, brividi, eruzioni cutanee e lesioni sul viso o sui genitali.
L’Oms stima che la malattia sia fatale per circa una persona su 10, ma i vaccini contro il vaiolo sono protettivi e sono in fase di sviluppo anche alcuni farmaci antivirali. Una delle teorie che funzionari sanitari stanno esplorando è se la malattia si trasmetta sessualmente.