Il suo volto inizia a essere conosciuto. Le sue parole a emozionare. E a imbarazzare. Vanessa Nakate – 25 anni, ugandese – ha assunto il ruolo di paladina della protesta contro il cambiamento climatico. È tra le leader del movimento ambientalista Fridays for future.
Un’icona che ha conquistato titoli di giornali di tutto il mondo in questo 2021 al tramonto. Anno che ha visto una Conferenza sul clima, a Glasgow, rivelarsi fallimentare nell’imporre medicine efficaci per una Terra febbricitante.
Abbiamo deciso anche noi di Nigrizia di dedicarle l’ultima copertina. Un segnale. Che merita una premessa: nel 2021 molti paesi africani sono stati strangolati dai lacci della dittatura (spesso militare) e di eventi climatici disastrosi che hanno portato fame e disperazione.
Eppure s’intravedono germi di cambiamento. Un cambiamento costellato da un fiume di facce e di sguardi che spesso faticano a trovare spazio nel sentire quotidiano del dibattito pubblico. Anche africano. Sono volti che non rappresentano un dolcificante artificiale rispetto alla dolorosa cronaca quotidiana del continente. Disegnano, tuttavia, una piccola crepa in quello stereotipo che rafforza sempre il pregiudizio quando si parla di Afriche.
Vanessa è uno di quei volti. Ma ne potevamo scegliere altri per la copertina. Quello, ad esempio, di Ayakha Melithafa, una sudafricana che a soli 19 anni ha presentato una denuncia alle Nazioni Unite per i diritti dei bambini contro cinque stati (Francia, Germania, Brasile, Argentina, Turchia) accusati di inazione climatica.
Oppure potevamo cercare il volto pacioso e sorridente di Irène Wabiwa Betoko, l’avvocata congolese che nel 2008 ha contribuito a creare Codelt, una delle prime associazioni a difesa dei diritti delle comunità colpite dal disboscamento.
Meritava una copertina pure Elizabeth Wathuti, la 26nne kenyana erede della biologa e veterinaria Wangari Maathai premio Nobel per la pace 2004. Non solo. Altri volti, altre storie potevano essere portati alla ribalta. Quelli di Adenike Oladosu, la 27enne nigeriana che ha dato vita alla campagna I Lead Climate per portare la voce dei giovani africani negli organismi internazionali. Oppure, ancora, quelli della sierraleonese Roseline Isota Mausaray o della zambiana Veronica Mulenga. E altri ancora.
Tutti volti di donne. Non è un caso. Perché, come ci ricorda Adenike Oladosu, non ci può «essere ecologia senza femminismo visto che le donne sono quasi sempre le prime vittime del cambiamento climatico». Tutti volti di un movimento dalle tante icone e linfa vitale anche per un cambiamento radicale nelle Afriche. Perché, come afferma in ogni intervista Vanessa, «non ci sarà giustizia climatica senza giustizia sociale, razziale e di genere».
Sarebbe demagogico e fuori dal tempo scrivere che bastano la loro azione e le loro battaglie per incrinare il potere dei gerontocrati e dei generali dei governi africani. Non basta essere giovani («Ci vogliono molti anni per diventare giovani», Pablo Picasso) impegnati. Sono privi/e degli strumenti per competere con i Museveni, i Kenyatta o i Buhari di turno. Ma è altrettanto vero che «non puoi attraversare il mare semplicemente stando fermo a fissare le onde» (Rabindranath Tagore).
Vanessa Nakate
Balza agli onori delle cronache quando l’Associated Press, nel gennaio del 2020, taglia la sua figura da una foto scattata a margine del Forum di Davos, insieme a quattro attiviste bianche tra cui Greta Thumberg. «Adesso ho una buona definizione di razzismo», fu l’amareggiata reazione di Nakate in un post sul suo profilo Twitter, in cui mostrava l’immagine originale e quella rifilata. «Sono triste per la gente africana. Questo è il modo in cui veniamo considerati. Cancellando me hanno cancellato il mio messaggio»