Io Capitano, undicesimo lungometraggio di Matteo Garrone, presentato in Concorso alla 80ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia e accolto con entusiasmo dalla critica è la storia di due ragazzini, Seydou e Moussa, che dal Senegal intraprendono un viaggio attraverso il deserto, la Libia e il Mar Mediterraneo che li porterà sani e salvi in Italia.
La sceneggiatura, scritta in sei mesi con Massimo Ceccherini, Massimo Gaudioso e Andrea Tagliaferri mescola le storie di Mamadou Kouassi (originario della Costa d’Avorio e ora mediatore a Caserta) e Fofana Amara (accusato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e finito in carcere per sei mesi per aver portato in salvo centinaia di persone su un’imbarcazione portata dalla Libia) alle testimonianze di Brhane Tareka, Siaka Doumbia.
Viaggio di formazione
Ma il film non vuole essere un mero racconto realista e lo stesso Garrone conferma la doppia anima del film che ambisce a un realismo magico. Il regista cita in particolare la favola di Pinocchio sottolineando un parallelismo tra il celebre burattino di Collodi e Seydou, il protagonista di Io Capitano.
Seydou, anima pura ed ingenua, disobbedisce alla madre per avventurarsi in un viaggio di formazione che gli farà aprire gli occhi sui pericoli del mondo trasformandolo in un adulto. In un Capitano coraggioso, in grado di salvare non solo sé stesso ma anche una nave di migranti.
Il riferimento più diretto e più ardito è però l’Odissea che Garrone cita dichiarando la dimensione epica del viaggio dei migranti.
La troupe italiana
Eppure nonostante questi nobili riferimenti Io Capitano risulta un film ambiguo che oscilla pericolosamente tra un registro realista e uno più favolistico. Due anni di ricerca, un budget importante (8 milioni di euro) non sono sufficienti, forse, a raccontare un tema così drammaticamente attuale e complesso.
E il fatto che Garrone abbia lavorato con una troupe completamente italiana è un limite evidente, che forse si sarebbe potuto evitare collaborando con professionalità senegalesi che negli ultimi anni hanno lavorato a produzioni franco-senegalesi approdate e premiate a Cannes.
Il limite del film è evidente fin dalle prime scene ambientate a Dakar. Una scenografia che risulta quasi teatrale, colori sgargianti, interni modesti ma impeccabili, tutto troppo ordinato, compresa la festa del Sabar che sembra uscire da uno show televisivo.
L’intento era quello di raccontare un Senegal povero ma dignitoso e vitale, anche attraverso il passaggio da colori sgargianti e luminosi a toni più cupi, seguendo il girone infernale nel quale cadono i due cugini.
Ingenuità
Ma la storia di Seydou e Moussa risente di problemi di drammaturgia e veridicità oltre che dei soliti luoghi comuni nei quali i registi italiani si ritrovano invischiati tutte le volte che provano a raccontare una storia africana. E quindi non manca il marabout/stregone, il rap, i tamburi, le danze sfrenate, le immagini eccessivamente estetizzanti del deserto, nonostante i cadaveri sepolti dalla sabbia.
Garrone ha dichiarato: «Mi sembrava che mancasse un racconto in forma visiva del viaggio, soprattutto della parte del viaggio che si svolge dall’altra parte del mare. Volevo fare un controcampo, ribaltare la prospettiva, guardare a cosa succede prima».
Avrà visto La Pirogue di Moussa Traoré, Atlantics e Atlantique di Mati Diop, Yoolé di Moussa Sene Absa? Garrone pecca di ingenuità o presunzione?
In conferenza stampa si è rifiutato di rispondere a domande sulla politica migratoria italiana, mentre Mamadou Kouassi, seduto accanto a lui insieme ai due giovani attori, è stato più diretto parlando del sogno dell’Europa come terra di diritti (per esempio scuola pubblica gratuita) e sul ruolo di Libia e Tunisia, chiedendo che l’Italia non dia più soldi a quei governi.
Io Capitano, è un film ambiguo, ma va visto. Guardatelo con occhio critico. Ma guardate anche i film dei registi senegalesi, che hanno raccontato, loro sì, il viaggio dei loro connazionali.