Che in Somalia imperi il caos non è certo una notizia. Per cui non c’è da stupirsi se a meno di un mese dalla presunta data fissata per le elezioni presidenziali (7 febbraio) non si sappia se in realtà quel voto, che manca dal 1969, ci sarà oppure no.
Lo scorso settembre era stata dettata una road map, condivisa da entrambe le camere del parlamento, per giungere alle elezioni legislative il 6 gennaio e quelle presidenziali, appunto, il 7 febbraio. Ora una parte dell’accordo è già naufragato. C’è la reale possibilità che alcuni stati federali si astengano dal processo elettorale, non condividendo, tra gli altri aspetti, la formazione della Commissione elettorale.
Il 9 gennaio scorso, il premier somalo Mohamed Hussein Roble aveva annunciato che il paese andrà al voto entro febbraio, sia per le parlamentari sia per le presidenziali, nonostante il mancato accordo con la controparte su diversi punti. In una conferenza stampa a Mogadiscio, Roble ha precisato che le elezioni si terranno negli stati di Galmudug, Hirshabelle, Sudoccidentale e Mogadiscio (alleati del governo federale).
L’opposizione sulle barricate
Al primo ministro ha replicato il presidente dello stato regionale dell’Oltregiuba, Ahmed Islam Mohamed Madobe, che lo ha avvertito come «lo svolgimento di elezioni unilaterali in Somalia può far sprofondare il paese nel caos e di mettere a repentaglio i progressi ottenuti con fatica in passato, compresi gli sforzi per la sicurezza e il rafforzamento dello stato».
Lo stallo sull’attuazione dell’accordo elettorale va avanti da diverse settimane, con i leader dell’opposizione e i presidenti degli stati dell’Oltregiuba e del Puntland che accusano il governo federale di voler installare agenti dell’intelligence e funzionari pubblici fedeli al presidente Abdullahi Mohamed “Farmajo” nel comitato elettorale. La richiesta irrevocabile è di sciogliere quest’ultimo per consentire il reclutamento di nuovi membri.
Le armi turche
L’opposizione ha alzato il tiro chiamando in causa anche la Turchia, granitico alleato di Mogadiscio; ha esortato Ankara a non inviare un carico di armi a una speciale unità di polizia, perché il timore è che il presidente somalo possa usarle per “truccare” le prossime eventuali elezioni.
Il paese anatolico aveva in programma l’invio di mille fucili e 150mila proiettili. La Turchia addestra la polizia di Harama’ad, un’unità speciale somala nota per la sua violenta repressione delle proteste nel paese del Corno d’Africa. Anche il 15 dicembre scorso 4 manifestanti sono stati feriti gravemente dai suoi agenti.
Appello caduto nel vuoto. Perché la Somalia, paese piagato da una devastante guerriglia jihadista, disastrato economicamente e da 52 anni senza un governo legittimato da un voto popolare, resta una pedina fondamentale del grande scontro in atto per la supremazia politica, militare, culturale ed economica nel mondo islamico.
E rappresenta anche un importante hub geopolitico, collocato nello stretto che congiunge il Mar Rosso con il Golfo di Aden, uno dei punti strategici per i commerci mondiali. Appetito da mille potenze straniere. E la Turchia risorgente, ma strutturalmente a corto di risorse, vi ha piantato le proprie tende esattamente da 20 anni. Da quando il 19 agosto 2011, in pieno ramadan, l’allora primo ministro Recep Tayyip Erdoğan giunse a Mogadiscio, unico leader non africano a visitare la Somalia in 20 anni.
Una collaborazione ventennale
E quella che era nata come un’iniziativa umanitaria, si sviluppò nel tempo come una vera e propria collaborazione economica e militare. L’ombra del sultano si è allungata sempre di più nel paese. Nel 2016 ha aperto la più grande ambasciata turca in Africa.
Un anno dopo, il 30 settembre 2017, Ankara ha inaugurato ufficialmente a Mogadiscio la più importante struttura militare di addestramento realizzata fuori dai confini turchi: Camp Turksom con almeno 200 consiglieri militari turchi. Oggi circa un soldato su 3 è addestrato falle forze armate dell’ex impero ottomano.
Nell’agosto scorso l’ambasciatore turco in Somalia, Mehmet Yilmaz, ha dichiarato all’agenzia stampa anatolica Anadolu che la Turchia è sulla buona strada per addestrare circa un terzo delle forze armate militari somale, per un totale di 15-16 mila membri. L’obiettivo è costruire un esercito somalo di lingua turca.
Molti soldati somali già oggi ricevono un addestramento speciale a Isparta, nella provincia occidentale della Turchia, nel comando di addestramento antiterrorismo. Un impegno militare che acquista un valore ancora più peculiare oggi dopo che il 15 gennaio è scaduto il termine fissato dagli Usa per il ritiro completo dei 700 soldati americani presenti nel paese.
Nuova base nel sud
Un ritiro che si accompagna, invece, con l’annuncio dell’apertura di un’altra grande base militare turca nel sud della Somalia. Il comando di Mogadiscio si inserisce nella rete di punti di appoggio militari turchi all’estero che include pure il porto sudanese di Suakin, affittato nel 2017 per 99 anni, vecchia base navale di epoca ottomana, oggi trasformata in porto commerciale grazie ai finanziamenti del Qatar.
Dagli iniziali canali umanitari, ha gemmato così una salda rete di interessi economici turchi nel paese. La Mezza luna è presente in molti settori: dalla costruzione di infrastrutture fondamentali come il rinnovamento dell’aeroporto internazionale Aden Adde di Mogadiscio alla modernizzazione del porto della capitale somala fino alla realizzazione di uno dei più moderni ospedali del Corno ribattezzato Erdoğan Research and Training Hospital.
Ankara ha poi firmato con Mogadiscio un memorandum of understanding sull’energia e le risorse minerarie con cui la Somalia ha aperto alle esplorazioni petrolifere turche nelle proprie acque territoriali. È per questo che si vedono le strutture della Turkish Petroleum Corporation esplorare al largo delle coste somale.
Un attivismo militare-economico, quello turco, preso di mira dagli stessi terroristi islamisti. Il 2 gennaio scorso c’è stato un attentato contro un’azienda anatolica impegnata nella costruzione della strada che congiunge Mogadiscio a Afgoye. Il bilancio è stato di 5 morti , di cui 2 turchi, e di 13 feriti.
Un episodio grave, che non ha tuttavia spinto il sultano Erdoğan a togliere il piede sull’acceleratore degli investimenti in Somalia.