Wissem aveva ventisei anni e veniva da Kebili, nel centro della Tunisia. I genitori e la sorella hanno chiesto, fin dalla sua scomparsa, che chi l’ha causata venga individuato e messo di fronte alle proprie responsabilità.
Lo hanno ribadito questa settimana, durante una videoconferenza organizzata dal comitato Verità e Giustizia per Wissem Ben Abdellatif.
Nel corso dell’incontro on-line, diverse sono state le preoccupazioni sollevate dai partecipanti in merito al futuro della battaglia che attende la famiglia Abdellatif, gli attivisti che la difendono e l’avvocato Francesco Romeo.
Quest’ultimo ha presentato, lo scorso anno, una denuncia per sequestro di persona nei confronti di tutti i medici e gli infermieri che si erano occupati di Wissem durante la sua degenza, prima all’ospedale Grassi di Ostia, poi al San Camillo di Roma.
Un’ulteriore denuncia per omicidio colposo e sequestro di persona era stata sporta nei confronti del medico che dirige il servizio psichiatrico di entrambi gli ospedali.
Secondo un recente articolo apparso sull’edizione romana del Corriere della Sera, la Procura di Roma avrebbe chiesto l’archiviazione per tre delle quattro persone indagate, tra cui il primario dei due reparti. Al processo, in questo caso, rischierebbe di andare solo uno degli infermieri che sarebbe imputato per omicidio colposo.
«Se confermate, queste notizie sono amare» ha commentato l’avvocato Romeo, affermando che la famiglia e il comitato intendono costituirsi parte civile nel processo all’infermiere e opporsi all’eventuale richiesta di archiviazione per gli altri tre operatori sanitari indagati.
A preoccupare i familiari è inoltre il rischio di non poter assistere alle udienze per le difficoltà burocratiche e materiali che impediscono loro di raggiungere l’Italia, dove vorrebbero anche incontrare fisicamente i giornalisti.
«Non abbiamo ancora ottenuto i nostri passaporti e abbiamo bisogno di sostegno nel caso in cui dovessimo essere convocati» ha spiegato in arabo Kamel, il padre di Wissem.
Per questo, il comitato Verità e Giustizia ha lanciato negli scorsi mesi una raccolta fondi, arrivando per il momento a raccogliere circa 1.585 euro dei settemila necessari per coprire le spese legali e di viaggio della famiglia.
I fatti
Wissem, secondo quanto emerso in questi due anni, era sbarcato a Lampedusa nell’ottobre del 2021 con l’obiettivo di raggiungere uno zio in Francia e lavorare insieme a lui per sostenere sé stesso e i suoi parenti.
Il ventiseienne, ha raccontato più volte la sorella Rania che da lui ha ereditato la passione per lo sport, aveva partecipato come calciatore a uno stage nel Club Africain, una delle due maggiori squadre tunisine, ma non era stato confermato. Prima di partire, aveva anche lavorato in hotel e supermercati, con salari che non raggiungevano i 200 euro mensili.
Quando è arrivato in Italia, Wissem era sano. Lo dicono i familiari, lo dice la documentazione medica acquisita dal garante per i detenuti del Lazio che parla di “buone condizioni psicofisiche” all’indomani dello sbarco.
Con gli altri tunisini che viaggiavano insieme a lui, Wissem era stato portato prima all’hotspot di Lampedusa, poi su una nave quarantena ormeggiata ad Augusta. Trasferito nuovamente, stavolta al CPR di Ponte Galeria, l’uomo aveva denunciato le condizioni di detenzione a cui era sottoposto.
Insieme, probabilmente, ad altri compagni di reclusione, aveva chiesto il rispetto dei suoi diritti fondamentali, diffondendo dei filmati da una pagina Facebook. Successivamente, era stato portato al pronto soccorso dell’ospedale Grassi di Ostia, il 23 novembre, in seguito a una controversa diagnosi di “disturbo schizo-affettivo”.
Due giorni dopo lo avevano trasferito al San Camillo di Roma per questioni di competenza territoriale. È morto qui, nella notte tra il 27 e il 28 novembre, legato a una barella, in un corridoio.
A causargli un arresto cardiaco sono stati i sedativi somministratigli in dosi massicce eccedenti anche la terapia che gli era stata prescritta. Dal momento che a Wissem non era stata data la possibilità di chiedere asilo in Italia, il 24 novembre il giudice di pace di Siracusa aveva deciso di sospendere il suo trattenimento in CPR.
Ma quel giorno il giovane era già legato a un letto, dove stava ricevendo un trattamento al quale non aveva mai dato il consenso, e che non era nemmeno inquadrato da un regime di trattamento sanitario obbligatorio, quest’ultimo mai formalizzato.
Durante la sua ospedalizzazione, Wissem non ha avuto la possibilità di comunicare con un mediatore. Non ha mai saputo che, per la giustizia italiana, avrebbe dovuto essere libero. Prima ancora di subire l’abuso rappresentato dalla contenzione fisica e della sedazione, Wissem ha vissuto quello di una ingiusta detenzione in CPR.
«Speriamo di non dover mai più raccontare la morte di qualcuno in un CPR, ma in questi luoghi, che per noi sono lager, gli atti di autolesionismo e i tentati suicidi continuano», spiega a Nigrizia Yasmine Accardo della rete LasciateCIEntrare.
E aggiunge, «il rischio che si producano episodi in parte simili a quello di Wissem è sempre più alto, anche in considerazione della normativa introdotta dal decreto Cutro, che prevede l’egida del genio militare sulle strutture, il loro aumento, il protrarsi dei tempi di detenzione».