Da undici mesi il Sudan è sconvolto da una guerra cominciata come scontro di potere tra due generali e che rischia di trasformarsi presto in guerra civile etnica e di far collassare il paese, ora teatro della maggior crisi umanitaria del mondo per numero di persone colpite.
I due – Abdel Fattah al-Burhan, comandante in capo dell’esercito (SAF) e Mohamed Hamdan Dagalo, detto Hemeti, comandante in capo delle Forze di supporto rapido (RSF), sua milizia privata – erano rispettivamente presidente e vicepresidente della maggior istituzione del paese, il Consiglio Sovrano, dopo un colpo di stato (25 ottobre 2021) che aveva rovesciato il governo di Abdalla Hamdok e messo in pausa un periodo di transizione che avrebbe dovuto portare il Sudan a eleggere democraticamente un governo civile.
Le forze politiche e i gruppi della società civile, ora ai margini dei negoziati, fallimentari, per concordare almeno un cessate il fuoco che permetta l’arrivo di aiuti umanitari alla popolazione stremata, hanno una loro visione della crisi attuale e del futuro del paese.
Ne parliamo con Yasir Arman, presidente di uno dei gruppi in cui si è diviso l’SPLM, il movimento che ha combattuto per decenni contro il regime islamista del deposto presidente Omar El-Bashir, e autorevole esponente del Coordinamento delle forze civili e democratiche (Coordination of Civilian Democratic Forces, conosciuto come Tagadum), guidato dall’ex primo ministro Hamdok.
Come il paese è arrivato a questa crisi?
Questa guerra è il risultato del colpo di stato. Il colpo di stato e la guerra sono il risultato del tentativo del movimento islamico sudanese di riprendersi il potere che aveva perso con la rivoluzione di dicembre (2018, è il movimento popolare che ha portato alla caduta del regime islamista del presidente El-Bashir).
Qual è ora la situazione?
La gravità della crisi in cui il paese si trova adesso è data dagli 11 milioni circa di sfollati, il numero più alto nel mondo. Molti si sono già mossi diverse volte, incalzati dai combattimenti che si diffondono. La situazione è destinata a peggiorare, coinvolgendo le comunità e diventando una guerra etnica.
Il conflitto ha fermato il lavoro agricolo. Ci sono ormai chiari segnali dell’arrivo di una carestia che porterà la fame. Evitarla è per noi una questione della massima importanza.
I servizi sanitari stanno collassando, come l’educazione. Il paese è diviso in due zone, ognuna controllata da uno delle due parti in conflitto.
Come pensate si debba affrontare una crisi di queste dimensioni?
Il primo e più importante passo è un cessate il fuoco di lunga durata per motivi umanitari che permetta l’apertura di corridoi per gli aiuti e metta fine alle violenze, alle violazioni dei diritti umani, ai crimini contro i civili.
Tutti, a prescindere dalle nostre differenze, dobbiamo concentrare ora le nostre energie per ottenere il cessate il fuoco, che potrebbe essere di 6 mesi, o anche di un anno, rinnovabili. Questo potrebbe evitare anche la carestia e la fame che avrebbe un impatto nefasto su centinaia di migliaia di persone.
Secondo uno studio recentemente diffuso, se ci fosse il cessate il fuoco, per rimettere in moto la produzione agricola occorrerebbero circa 100 milioni di dollari. Per portare aiuti alimentari a 11 milioni di persone potrebbero esserne necessari almeno 800 milioni.
Cosa pensate si debba fare sul piano politico?
Per ora l’obiettivo principale è fermare la guerra. Solo dopo potremo analizzarne le cause. Perciò anche il processo politico, che deve svilupparsi in uno “spazio” aperto, è reso possibile solo dal cessate il fuoco che permetterebbe il ritorno a casa dei profughi e la ripresa della vita politica.
Per ora non abbiamo grandi speranze. Non abbiamo tavoli di mediazione efficaci. Ci sono tentativi in Arabia Saudita. I militari si sono incontrati segretamente a Manama (Barhein). In entrambi i casi noi forze civili non siamo state coinvolte e questo è il maggior problema di quelle mediazioni. Il nostro coinvolgimento è cruciale per il futuro del paese. Tocca ai civili disegnarlo, non a chi è coinvolto nella guerra o la sta combattendo.
L’altro tavolo aperto, quello dell’IGAD, raduna attori in competizione fra loro e che non stanno affrontando i problemi sul tappeto.
Per un negoziato efficace abbiamo bisogno che siano coinvolti i paesi africani, quelli arabi – in particolare l’Arabia Saudita, l’Egitto e gli Emirati Arabi Uniti – gli altri paesi confinanti con il Sudan che non fanno parte dell’IGAD, come il Ciad, e poi la comunità internazionale.
Che futuro vede per il paese?
Il futuro del Sudan appartiene a tutti noi sudanesi. La questione più importante in questo momento è come si ripara il disastro provocato dalla guerra. Bisogna partire dalla ricostruzione dello stato, cambiare paradigma, sviluppare un nuovo progetto basato su una nuova ridistribuzione socio economica e politica.
La guerra non è cominciata adesso, ma addirittura prima dell’indipendenza. La prima fase è iniziata nell’agosto del 1955 in Sud Sudan. Nelle fasi successive si è diffusa in varie parti del paese fino a raggiungere la capitale.
Il conflitto scoppiato il 15 aprile dell’anno scorso fa parte di un circolo vizioso in cui momenti di guerra sono stati seguiti da momenti di pace, governi democratici sono stati rovesciati da colpi di stato. Dobbiamo uscire da questa dinamica affrontando le sue cause profonde che possono essere riconosciute in uno stato nazionale che esclude parte della popolazione, un modello che sta collassando nel Corno d’Africa e nel continente in generale.
Il Sudan è un paese dalle molte diversità. Le fondamenta di un nuovo modello si trovano nello slogan della rivoluzione di dicembre: libertà, pace e giustizia. Su questi tre pilastri dobbiamo costruire un nuovo Sudan, dove non ci siano discriminazioni basate sulla religione, sull’etnicità, sul genere, dove ci sia giustizia e uguali opportunità per tutti, dove lo sviluppo raggiunga equamente tutte le regioni, dove ci sia un bilanciamento dei rapporti tra il centro e le periferie.
È la nostra unica possibilità. Se ci accontentassimo di mettere fine a questo conflitto tornando alla situazione precedente non avremmo risolto il problema. Non ci serve una soluzione rapida, ma durevole e sostenibile.
State già pensando ad una forma istituzionale per il nuovo Sudan?
C’è già un dibattito in corso. Recentemente ci sono stati due seminari sul tema. In uno si è parlato della struttura costituzionale. Tutti i sudanesi pensano che ci debba essere un sistema decentralizzato. Potrebbe essere una forma di federazione o un certo tipo di autonomia; è in discussione.
Ci si è anche confrontati sulle amministrazioni locali che devono essere in grado di raggiungere la gente, anche gli strati sociali più deboli nei posti più remoti, portando potere, sviluppo e servizi alla base, facilitando la partecipazione di tutti. Va evitato un governo di élite che faccia gli interessi solo di alcuni gruppi sociali.
È comunque chiaro che bisogna prima decidere come si governa il Sudan, e solo dopo ci si porrà il problema di chi sarà chiamato a farlo, in base ad un progetto che abbia una base ampia, accettato dalla maggioranza. Questo è il solo modo di evitare conflitti in futuro.
Finora il coordinamento delle forze pro-democrazia, di cui lei fa parte, ha incontrato una delle parti in conflitto, le Forze di supporto rapido. Non ha ancora incontrato i leader dell’esercito. Perché?
Perché pretendono di incontraci a Port Sudan, città che controllano. Hanno incontrato le RSF a Jedda e nel Barehin. Non si capisce perché insistano nel voler incontrare noi a Port Sudan. Crediamo che in questo modo pensino di controllarci, impedendoci di parlare chiaramente. Invece noi vogliamo un dialogo aperto a libero. E questo si può fare solo in un posto gradito ad entrambi.
Che modello di sviluppo del paese avete in mente?
Bisogna portare lo sviluppo alla gente, nelle aree rurali, per evitare la corsa alla città, come succede adesso. Uno dei problemi del Sudan è il degrado e l’abbandono delle aree rurali che non sono più produttive.
Inoltre ci sono milioni di giovani che non hanno futuro. È un problema non solo sudanese, ma direi africano. Nel continente il 70% della popolazione è costituita da giovani, in gran parte disoccupati. Migrano verso le città che non hanno risposte per i loro bisogni anche quando sono diplomati o laureati.
I problemi dei giovani e delle aree rurali sono i più importanti in tutta l’Africa e sono alle radici dell’instabilità del continente. È necessario costruire una relazione organica tra le aree rurali e quelle urbane se si vogliono evitare conflitti ed emarginazione di interi strati della popolazione. Per questo è altrettanto necessario che la distribuzione delle ricchezze del paese sia equa.
È necessario inoltre combattere la corruzione, dovuta alla mancanza di istituzioni e all’impunità.