«Un pellegrinaggio verso la guarigione e la coesione nazionale». Il presidente dello Zimbabwe Emmerson Mnangagwa ha definito così un’iniziativa lanciata dal suo governo per affrontare la dolorosa eredità del cosiddetto Gukurahundi. Questo termine della lingua shona ricorda un’omonima operazione militare condotta dalle forze armate dello Zimbabwe fra il 1983 e il 1987, durante la quale vennero uccise migliaia di persone. All’epoca dei fatti, il presidente era ministro per la sicurezza nazionale. Le vittime delle uccisioni di massa erano per lo più dissidenti politici appartenenti alla comunità degli ndebele, la seconda più popolosa dello Zimbabwe. ù
L’iniziativa per la riconciliazione è stata lanciata a Bulawayo, seconda città del paese nonché centro più importante della sua parte sud-occidentale, dove sono avvenuti i fatti. «Cari cittadini dello Zimbabwe, oggi ci siamo riuniti per lanciare ufficialmente il Gukurahundi Community Outreach Programme», ha scandito il presidente citando il nome ufficiale dell’iniziativa. «Questo piano non vuole solo fornire non un meccanismo di riesamina delle varie rivendicazioni, ma punta a essere un’odissea di trasformazione, un pellegrinaggio verso la guarigione e la coesione nazionale». Mnangagwa ha aggiunto: «Questo programma di sensibilizzazione della comunità che stiamo lanciando oggi mette a disposizione una piattaforma per riunirci, condividere i fardelli del passato e tracciare collettivamente una rotta per un futuro più luminoso».
Leader tradizionali
Stando a quanto riportano i media dello Zimbabwe, la conduzione del Gukurahundi Community Outreach Programme è stata affidata a un gruppo di capi locali originari delle due province in cui si è svolta l’operazione e in cui risiedono gli eredi delle vittime, ovvero Matabeleland e Midlands. Ognuno di questi leader tradizionale avrà il compito di presiedere una commissione composta da 14 persone e davanti le quali sopravvissuti e parenti delle vittime potranno presentare le loro denunce. In tutto, si prevede che le udienze dureranno circa tre mesi.
Il progetto lanciato da Mnagwagwa è stato presentato per la prima volta nel 2019 ed è l’ultimo atto di anni consultazioni prima fra presidente e società civile – rappresentata da una coalizione di organizzazioni nata ad hoc per questo processo e denominata Matabeleland Collective – e poi fra capo di stato e leader comunitari.
Le critiche dello ZAPU
Il programma voluto dal governo ha sollevato diverse critiche, a partire da quelle presentate dell’Unione Popolare Africana dello Zimbabwe (ZAPU), che ha chiesto a Mnangagwa di cancellare l’iniziativa. Questo partito prende il nome dal partito i cui membri furono i principali obiettivi dell’offensiva del Gukurahundi. Buona parte del supporto popolare dello ZAPU proveniva poi dalla comunità degli ndebele, e per questo le violenze colpirono in modo indiscriminato gli appartenenti a questa gruppo. Lo ZAPU è poi confluito nell’attuale partito di governo, l’Unione Nazionale Africana di Zimbabwe – Fronte Patriottico (ZANU-PF) con gli accordi di pace che misero di fatto fine ai massacri, siglati nel 1987 con l’Unione Nazionale Africana di Zimbabwe (ZANU) di Mugabe.
Secondo la formazione che si rifà al vecchio ZAPU, nata nel 2008 dopo una scissione dalla formazione di governo, i capi tradizionali incaricati da Mnagwagwa non hanno nessuna legittimità politica mentre anche la loro imparzialità è motivo di dubbio. A detta dei vertici dello ZAPU inoltre, le organizzazioni della Matabeleland Collective non hanno avuto un mandato legale per poter negoziare a nome delle persone colpite dai massacri degli anni ’80. Il piano voluto dal presidente trascurerebbe inoltre la provincia delle Midlands, che pure è parte del piano stando alle dichiarazioni ufficiali del governo.
Il capo dello stato è stato criticato dalla stampa anche per non aver chiesto scusa per quanto commesso durante il Gukurahundi e per aver attribuito le responsabilità storiche dei massacri solo alla dominazione coloniale, rea di aver messo le comunità del paese una contro l’altra. Fra i temi che non sembrano essere toccati dal programma lanciato dal governo inoltre, c’è la questione della cittadinanza degli eredi delle vittime delle violenze. Non potendo presentare documenti che certificassero la morte dei loro genitori, molte persone ndebele parenti delle vittime non sono riuscite a ottenere la cittadinanza e sono rimaste apolidi.
Una storia sofferta
ZANU e ZAPU sono stati i due movimenti di liberazione che fra il 1965 e il 1980 hanno combattuto contro il governo segregazionista della minoranza bianca che si era unilateralmente sostituito al controllo coloniale britannico. Una volta raggiunta l’indipendenza e la fine del regime segregazionista, lo ZANU ha assunto la guida del paese tramite elezioni. Giunto al potere, il movimento guidato da Mugabe si è rivolto contro lo ZAPU, con il quale già c’erano state diverse fasi di tensione durante i 15 anni di guerra civile che avevano preceduto l’avvento della democrazia. È proprio in quest’ottica che nel 1983, dopo due anni di violenze, viene lanciata l’operazione Gukurahundi. A condurla sul campo sarà la famigerata Quinta brigata delle forze armate, un corpo speciale che era stato addestrato in Corea del Nord. L’offensiva si è poi alimentata delle divisoni comunitarie che già segnavano lo scenario dello Zimbabwe. Lo ZANU traeva buona parte del suo consenso dalla maggioranza shona mentre lo ZAPU, come detto, dalla minoranza ndebele, presente nel sud-ovest.
Diverse fonti calcolano in migliaia le vittime. Una dei documenti più affidabili, redatto dalla Catholic Commission for Justice and Peace in Zimbabwe (CCJP), attesta il numero delle persone uccise fra 2 e 4mila, ammettendo che la cifra reale possa essere anche più del doppio. Secondo altre fonti le vittime sono state almeno 20mila, mentre circa 400mila persone sarebbero state costrette alla fame dal controllo dell’approvvigionamento di cibo da parte del governo.