Sta crescendo la tensione politica e sociale in Zimbabwe in vista delle elezioni suppletive, legislative e municipali, del 26 marzo, quando si completerà, con enorme ritardo, la nomina dei seggi rimasti vacanti dalle elezioni generali del 2018, o per successiva morte o dimissioni dei legislatori. Elezioni che sono lette come una prova generale del voto del 2023, quando il presidente Emmerson Manangagwa e il suo partito, lo Zanu-Pf, al potere dall’indipendenza, nel 1980, cercheranno riconferme.
La lunga sospensione delle elezioni suppletive, ufficialmente a causa del Covid-19, è stata criticata nei mesi scorsi dal Zimbabwe Election Support Network (Zesn, coalizione di 36 organizzazioni non governative nata nel 2000 per coordinare le attività relative alle elezioni) che ha espresso preoccupazione, osservando che questo ritardo è “contrario alla democrazia e ai diritti umani” e “non conforme agli strumenti regionali e internazionali che regolano lo svolgimento delle elezioni democratiche”.
E, a ben vedere, di democratico nel funzionamento del sistema Zimbabwe, da oltre quarant’anni strettamente controllato dal partito-stato con il sostegno delle élite militari, c’è ben poco. Lo dimostrano i fatti delle ultime settimane che denunciano una violenta stretta sull’opposizione (Coalizione dei cittadini per il cambiamento – Ccc, nuovo partito fondato a gennaio da Nelson Chamisa dopo aver lasciato lo storico Movimento per il cambiamento democratico) e sulle organizzazioni della società civile, fatta di repressione e violenza.
L’ultimo episodio è avvenuto sabato scorso, 12 marzo, quando agenti di polizia hanno impedito al Ccc di tenere un raduno a Mavhunga, a est di Harare, ufficialmente per “garantire pace e stabilità”. Numerose le denunce il mese scorso, in un’escalation culminata il 27 febbraio con la morte di una persona, trafitta da una lancia, e il ferimento di altre 17, quando una banda composta da giovani dello Zanu-Pf armati di machete, lance e spranghe, ha attaccato i sostenitori della Ccc, interrompendo un raduno a Kwekwe, a nord-est della capitale.
Il giorno precedente la polizia aveva ha usato cani e gas lacrimogeni per disperdere la principale convention del partito di opposizione a Gokwe, a sud-ovest di Harare, per presunta violazione delle norme anti Covid, mentre a pochi chilometri di distanza, il presidente Mnangagwa pronunciava senza ostacoli un suo discorso alla folla.
Il 18 febbraio è stato diffuso sui social il video di poliziotti che aggredivano sostenitori del Ccc nella capitale e lo stesso giorno i leader della chiesa cattolica del paese hanno esortato le istituzioni a condurre elezioni pacifiche, invitando le forze di sicurezza a evitare “comportamenti scorretti”.
Il giorno seguente il Ccc denunciava l’arresto, effettuato casa per casa, di almeno 80 sostenitori dell’opposizione a Masvingo, a sud-est della capitale, e il 20 febbraio il leader del Ccc, Chamisa, accusava la commissione elettorale di aver tentato di truccare le elezioni manipolando le liste elettorali. Chamisa lo fece anche nel 2018, quando ricorse alla Corte costituzionale contro il risultato delle elezioni che assegnarono la vittoria a Mnangagwa.
L’ultimo rapporto dello Zimbabwe Peace Project (Zpp), certifica una crescita del 41% delle violazioni dei diritti umani a febbraio, per il 37% compiute dalla polizia. La maggior parte delle vittime, circa l’89%, sono comuni cittadini, e il 9% dei sostenitori del Ccc.
L’aumento delle violenze sugli oppositori, denunciato nelle scorse settimane anche dal Forum delle ong per i diritti umani dello Zimbabwe, ha richiamato nei giorni scorsi anche l’attenzione di alcuni paesi occidentali -Unione europea e le ambasciate di Gran Bretagna, Stati Uniti, e Australia – che hanno condannato la violenza contro la coalizione di Chamisa.
Un intervento che non è piaciuto al presidente Mnangagwa che, fedele al suo soprannome, “coccodrillo”, ha risposto facendo notare ai diplomatici stranieri che gli è consentito fare da osservatori delle elezioni, ma che la sua amministrazione non consentirà alcuna interferenza.
«È davvero un peccato che mentre lo Zimbabwe si prepara per le elezioni generali del 2023, alcune forze stiano già cercando di influenzare il discorso nazionale e destabilizzare la pace e la stabilità di cui stiamo godendo come paese», ha affermato nel suo discorso il presidente, accusato d’aver instaurato un regime perfino più repressivo di quello del suo predecessore Robert Mugabe, al potere dal 1987 al 2017, quando, a 93 anni, fu deposto dai militari e sostituito da Mnangagwa.
Il quadro generale del paese è ben fotografato dall’analista dell’Università sudafricana di Città del Capo, Brian Raftopoulos, sul Daily Maverick: “Mentre lo Zimbabwe si avvicina alle elezioni del 2023, la battaglia per realizzare la prima sostanziale transizione democratica nel periodo postcoloniale appare desolante. Con i militari che continuano a svolgere un ruolo centrale nella politica dello Zanu-Pf, in particolare dopo il colpo di stato del 2017, la logica autoritaria del precedente regime di Mugabe si è solo accentuata”.