In Zimbabwe domani, 23 agosto, circa 6,6 milioni di iscritti sono chiamati alle urne per eleggere presidente, parlamento e amministrazioni locali. Alla diaspora, invece, la possibilità di esprimersi è stata nuovamente negata.
Il clima è particolarmente teso dopo mesi di iniziative messe in campo dal sempre più impopolare partito-Stato, lo ZANU-PF, al potere dall’indipendenza, nel 1980, per mettere il bastone tra ruote al principale schieramento di opposizione, la Coalizione dei cittadini per il cambiamento (CCC).
Che gode invece di un forte consenso tra la popolazione – il 70% degli elettori ha meno di 35 anni -, schiacciata da decenni di pesante crisi economia e monetaria, aggravata negli ultimi anni dal peso della disoccupazione, dell’inflazione – 175% a giugno, tra le più alte al mondo – e dell’aumento del costo dei beni di prima necessità.
Per la presidenza in corsa ci sono 11 candidati, ma la sfida, per la seconda volta, è tra l’attuale capo dello Stato Emmerson Mnangagwa (80 anni), detto il “coccodrillo”, che punta al secondo mandato, e il leader del CCC, l’avvocato e pastore Nelson Chamisa (45 anni).
I due si erano già affrontati nel 2018, quando Mnangagwa battè di poco Chamisa con il 50,8% dei voti.
Risultati contestati dal CCC e messi in discussione anche dagli osservatori dell’Unione Europea che affermarono che i risultati finali contenevano molti errori.
I candidati alla presidenza devono ottenere più del 50% dei voti per essere eletti. Ne caso in cui nessuno dei due più votati raggiungesse questa soglia, ci sarà un ballottaggio il 2 ottobre.
Per i candidati al parlamento e ai consigli comunali è invece sufficiente la maggioranza semplice dei voti.
In pochi però, in particolare tra gli osservatori all’estero, sono disposti a credere che l’esito di queste elezioni possa essere diverso da tutte quelle che le hanno precedute negli ultimi 43 anni.
Su questo si è espressa di recente in modo molto chiaro l’organizzazione Human Rights Watch, sostenendo che il voto del 23 agosto non sarà né libero né equo, ma invece accuratamente pilotato.
Lo scrive altrettanto chiaramente, raccontando le disperate condizioni di vita della popolazione, il giornalista zimbabwano Marko Phiri su The New Humanitarian in un articolo, editato oggi, dal titolo: Le elezioni dello Zimbabwe “già rubate”.
Per farlo, senza troppi sguardi indiscreti, il regime ha ammesso nel paese unicamente di osservatori esteri considerati “amici”, e la Commissione elettorale dello Zimbabwe (ZEC) ha respinto gli osservatori locali legati a movimenti pro-democrazia, adducendo generici “motivi di sicurezza”.
L’ultimo atto di questa campagna elettorale quasi a senso unico è un intervento dell’ufficio per gli affari africani del dipartimento di Stato americano – paese che con Harare non ha certo mai avuto rapporti di amicizia – che si è detto “deluso” dal rifiuto di accreditare diversi giornalisti stranieri.
Affermazione respinta fermamente dalle autorità dello Zimbabwe che hanno comunicano che i media esteri accreditati sono 24, tra cui Financial Times, CNN e AFP.
Secondo l’ultimo rapporto ufficiale del governo, attualmente sono accreditati a seguire lo svolgimento delle elezioni 370 giornalisti locali e solo una quindicina di stranieri.
Dovranno tutti prestare grande attenzione a quanto racconteranno, perché nel paese da una decina di giorni è in vigore una nuova legge, definita “patriottica”, che prevede la pena di morte per chiunque venga ritenuto colpevole di “danneggiare intenzionalmente la sovranità e l’interesse nazionale dello Zimbabwe”. (MT)