Svolta nella politica degli Stati Uniti verso lo Zimbabwe. Dopo oltre 20 anni, Washington ha deciso di interrompere un ampio programma di sanzioni che era arrivato a colpire in alcune fasi oltre 100 fra individui ed enti e di imporre nuove misure punitive nei confronti di 11 figure di vertice dello stato, fra i quali il presidente Emmerson Mnangagwa, il vice presidente Constantino Chiwenga e il ministro della Difesa Oppah Muchinguri. A questi si aggiungono anche tre nuovi enti. A motivare le misure – a cui i soggetti citati erano comunque già sottoposti nel contesto del regime sanzionatorio precedente – accuse di corruzione e violazione dei diritti umani.
Le sanzioni statunitensi, a cui si accompagnano analoghe misure europee, britanniche e di altri paesi, sono state approvate la prima volta nel 2003 nel tentativo di contrastare le violazioni dei diritti umani e il mancato rispetto dello stato di diritto che contrassegnavano il governo dell’ex presidente Robert Mugabe, deceduto nel 2019 dopo essere stato alla guida del paese fra il 1980 e il 2017.
Il partito da lui a lungo presieduto, denominato ora Unione Nazionale Africana di Zimbabwe – Fronte Patriottico (ZANU-PF), è ancora saldamente al comando ad Harare. La formazione di governo ha spesso definito “illegali” questi provvedimenti e negli anni ha sistematicamente attribuito alle conseguenze delle sanzioni le ragioni della crisi economica e finanziaria che attanaglia da sempre, a intensità alterne, lo Zimbabwe.
La giornata nazionale “anti-sanzioni”
Le autorità del paese hanno richiesto la rimozione delle misure punitive più volte, nel contesto di diversi consessi internazionali. Nel 2019 Harare, con il supporto della Comunità di sviluppo dell’Africa meridionale (SADC), ha persino dichiarato il 25 ottobre giornata di festa nazionale ufficiale “anti-sanzioni”. Secondo l’esecutivo, dall’inizio degli anni 2000 a oggi le casse dello stato dello Zimbabwe hanno perso circa 150 miliardi di dollari a causa della politica della comunità internazionale occidentale.
A peggiorare la considerazione sullo stato di salute della democrazia dello Zimbabwe hanno contribuito anche le elezioni dello scorso agosto. Le consultazioni hanno visto la riconferma per un secondo mandato di Mnangagwa e sono state segnate da accuse di brogli e manipolazione da società civile, opposizioni e parte della comunità internazionale.
Perchè questo cambiamento?
Nella nota con cui ha annunciato in settimana la fine del vecchio regime di sanzioni, articolato in tre diversi ordini esecutivi spiccati fra il 2003 e il 2008, il presidente Usa Joe Biden ha premesso di «continuare a essere preoccupato per la situazione nello Zimbabwe, in particolare per quanto riguarda gli atti di violenza e altre violazioni dei diritti umani contro oppositori politici e per quanto riguarda la corruzione pubblica».
Come ha spiegato in un comunicato il vice segretario del dipartimento del tesoro Wally Adeyemo, i cambiamenti apportati dagli Usa «hanno lo scopo di ribadire ciò che è sempre stato: le nostre sanzioni non sono destinate a prendere di mira la popolazione dello Zimbabwe. Oggi – ha aggiunto il dirigente – stiamo riorientando le nostre sanzioni su obiettivi chiari e specifici: la rete criminale di funzionari governativi e uomini d’affari del presidente Mnangagwa, ovvero i maggiori responsabili della corruzione e dell’abuso dei diritti umani contro il popolo dello Zimbabwe».
Il capo di stato è fra i destinatari delle nuove misure punitive, come detto, così come la sua consorte Auxillia Mnangagwa. Nelle motivazioni delle sanzioni si legge che il presidente «è coinvolto in attività di corruzione, in particolare quelle relative alle reti di contrabbando di oro e diamanti». Mnangagwa inoltre, «supervisiona anche i servizi di sicurezza dello Zimbabwe, che hanno represso violentemente gli oppositori politici e i gruppi della società civile». Fra le altre figure colpite dalla scure di Washington, il magnate Kudakwashe Regimond Tagwirei, ritenuto molto vicino allo ZANU-PF e considerato responsabile di aver «materialmente» agevolato atti di corruzione.
«Sotto la guida» del vicepresidente Chiwenga invece, secondo Washington, «le forze di sicurezza dello Zimbabwe si sono impegnate nella violenta repressione degli attivisti politici e delle organizzazioni della società civile». Violazioni, queste, peggiorate dopo la rielezione del presidente ad agosto. Similmente, il ministro della difesa Muchinguri è accusato di responsabilità nella «violenta repressione» che avrebbe segnato il comportamento dell’esercito sotto la sua gestione. Nonostante il contenuto del provvedimento Usa, diversi dirigenti dello ZANU-PF hanno celebrato la decisione, affermando che la rimozione del vecchio sistema di sanzioni resta comunque una vittoria del governo.
Resta invece in vigore il cosiddetto Zimbabwe Democracy and Economic Recovery Act (ZIDERA). Come spiega il think tank locale specializzato in questioni giuridiche Veritas, la norma, più che essere una vera e propria misura punitiva, determina una serie di condizionalità per l’approvazione, da parte USA, di nuovi stanziamenti a favore dello Zimbabwe dalle istituzioni finanziare internazionali.
Le sanzioni sono state imposte dagli Stati Uniti nell’ambito del cosiddetto Global Magnitsky Human Rights Accountability Act, una legge entrata in vigore nel 2017 che permette al governo di adottare provvedimenti puntivi contro qualsiasi funzionario nel mondo che si macchi di gravi crimini di corruzione e violazione dei diritti umani. Il provvedimento parte un principio secondo cui questi tipi di reati comportano una minaccia alla sicurezza e la stabilità di tutto il sistema politico internazionale e quindi, anche degli USA.