«Non sono riuscito a interpretare bene lo slogan; quelli che dicono che “ci sarò”, è perché avevano pensato che non ci sarei stato?». Il presidente dello Zimbabwe, Emmerson Mnangagwa, ha risposto così ai funzionari di partito e alla folla che, con un coro, gli chiedevano di rimanere al potere per un terzo mandato. È successo nella provincia orientale di Masvingo, durante un comizio organizzato in occasione della giornata nazionale della gioventù che in Zimbabwe si celebra ogni anno il 21 febbraio.
C’è un grande però, da contrapporre a questo entusiasmo e alla risposta, apparentemente sibillina, del presidente. La Costituzione dello Zimbabwe non prevede infatti che un capo di stato resti al potere per più di due legislature. E il capo di stato in carica è al secondo mandato.
Occorrono una serie di premesse. Alla prossime elezioni presidenziali manca ancora parecchio tempo. Le consultazioni sono previste infatti nel 2028. Mnangagwa e il suo partito, l’Unione Nazionale Africana dello Zimbabwe – Fronte Patriottico (ZANU-PF) che governa saldamente ad Harare dal 1980, si sono riassicurati la guida del paese meno di un anno fa, lo scorso agosto. L’esito del voto non è stato riconosciuto dalle opposizioni, che ha denunciato brogli di vario tipo, e ha suscitato le perplessità di buona parte della comunità internazionale.
Perché si è già cominciato a parlare di un terzo mandato, quindi? La ragione potrebbe risiedere nel fatto che lo scorso mese lo ZANU-PF ha ottenuto i due terzi della maggioranza dei seggi alla Camera bassa dell’Assemblea nazionale. Nella Camera alta il partito non ha ancora raggiunto questa quota, che però è virtualmente alla portata visto che diversi senatori potrebbero lasciare le opposizioni nel contesto di una frattura interna. Una volta raggiunta la soglia nelle due Camere si può iniziare l’iter per cambiare la Costituzione, anche se, come si spiegherà in seguito, questa condizione da sola non è sufficiente.
Una maggioranza contorta
Per chiarire il contesto serve anche spiegare le modalità con cui il partito di governo ha ottenuto questa maggioranza assoluta, che sono ritenute quanto mai controverse. Gli ultimi scranni utili sono stati infatti acquisiti a seguito di due tranche di elezioni suppletive che si sono tenute a dicembre e poi a inizio mese. Questo voto, a sua volta, si è reso necessario dopo che un auto proclamato segretario generale del principale partito di opposizione ha deposto una serie di deputati regolarmente eletti ad agosto. La curiosa dinamica ha aperto una crisi all’interno della Coalizione di cittadini per il cambiamento (CCC), questo il nome del partito, poi culminata con le dimissioni dell’ormai ex presidente Nelson Chamisa.
Dopo le elezioni, sui media dello Zimbabw e fra gli attivisti del partito di governo è cominciato a circolare uno slogan in lingua Shona, “2030 VaMnangagwa vanenge vachipo”, traducibile come “Nel 2030 Mnangagwa sarà ancora al potere”. È il motto che ha fatto capolino anche al comizio di Masvingo e a cui il presidente ha risposto in modo contorto, ma forse fin troppo chiaro. Anche il dirigente provinciale Ezra Chadzamira, nel corso dell’incontro, ha chiesto a Mnangagwa di prolungare il suo periodo al potere.
Lo scenario è più complesso di quel che sembra. Come spiega il think tank locale specializzato in questioni giuridiche Veritas, per modificare la Carta fondamentale è necessaria sia la maggioranza di due terzi in Parlamento, ma anche un referendum popolare. L’ordinamento dello Zimbabwe infatti impedisce una rimozione del limite dei mandati senza che venga modificato l’articolo 4, quello che contiene cioè la Dichiarazione dei diritti. Quest’ultimo si può però emendare solo previa consultazione popolare.